Contro analfabetismo e illegalità
Mozambico: un giornale e un processo in mezzo alla savana
L’abbiamo chiamato “Pa kwecha” ed è il primo giornale pensato, scritto e stampato in mezzo alla savana. Forse “giornale” può apparire un termine ambizioso, dato che è composto da sole quattro pagine ed esce una volta ogni trimestre. Ma se si pensa che è realizzato da ragazzi e ragazze che provengono da famiglie di contadini e allevatori di capre in Mozambico, dove il tasso di analfabetismo è ancora oggi fermo al 45%, allora, il nostro “Pa kwecha” è proprio un giornale. Un signor giornale.
“Pa kwecha”: testata in lingua chisena che significa pressappoco “apertamente, alla luce del sole”, per un giornale scritto in portoghese da un gruppo di quindici tra ragazzi e ragazze che vivono nei due studentati della nostra scuola comunitaria. Nel primo trimestre, a partire da marzo, lavoriamo a formare la redazione, a spiegare cos’è un giornale (dato che qui in mezzo alla savana i giornali non esistono e non arrivano) e a fare un po’ di storia, raccontando come e perché è nata la stampa. Prendiamo poi in mano alcuni giornali nazionali, analizzandone la struttura, i contenuti e le tendenze politiche.
A maggio, all’inizio del secondo trimestre, abbiamo la prima riunione di redazione. È chiaro che l’editoriale deve essere la presentazione di “Pa kwecha”. Ma negli altri quattro articoli previsti di cosa parliamo? E visto che nella redazione siamo in quindici, come scriviamo gli articoli? Decidiamo di procedere così: assieme scegliamo i temi, condividiamo e dibattiamo le idee, cerchiamo le fonti e costruiamo una bozza generale dei singoli articoli. Poi, in piccoli gruppi, scriviamo materialmente i singoli articoli. Infine, la redazione si riunisce per modificare e correggere.
Così, almeno, in teoria. Nella realtà, ci si confronta con le conseguenze dei limiti di un sistema scolastico di qualità pessima, per il quale, in una realtà rurale come Chemba, dopo sette anni di scuola, molto spesso non si è ancora in grado di leggere. Al tema della scuola decidiamo allora di dedicare il primo articolo, dal titolo “Se la scuola fosse una macchina”, dove si immagina una macchina ferma nel cortile con tutte le ruote sgonfie e qualcuno che si ostina ad affermare che la macchina funziona perfettamente. Una volta corretti gli articoli, inviamo il tutto a Federica, cara amica fin dai tempi dell’università, che ci dà una mano nell’impaginazione e nella grafica. Pochi giorni dopo, il primo numero è pronto.
Presentiamo il giornale a scuola ad alunni e professori, in chiesa alla comunità cristiana, e alla radio comunitaria di Chemba per farlo conoscere alla cittadinanza, e fissiamo un incontro con il sindaco e l’assessore all’Istruzione per consegnare loro una copia: in pochi giorni, il giornale circola nel paese e fa parlare di sé. Ci sono in particolare due articoli (uno sulla situazione socio-politica del Mozambico e sulla fragile tregua della guerriglia, un altro che riguarda il taglio illegale di legname nel nostro distretto) che suscitano il disappunto dei membri locali della Frelimo, il partito ininterrottamente al potere da 42 anni. Qualche professore legato al partito comincia a far circolare l’idea che bisogna stare attenti a scrivere certe cose, finendo per instaurare un clima di paura tra i ragazzi.
Proviamo allora a lavorare su due fronti. Su quello esterno, approfitto di un’assemblea con tutti i professori e le autorità del distretto (ovviamente tutti membri della Frelimo), alla quale sono invitato per parlare di scuola. Racconto del giornale, come è nato, la partecipazione attiva degli studenti, l’importanza della lettura e della scrittura: alla fine, animi rasserenati e strette di mano.
Il fronte interno è più delicato. I ragazzi conoscono la Frelimo, i suoi metodi autoritari e sanno come il suo potere sia costruito sulla paura: temo davvero che la successiva riunione di redazione possa coincidere con il funerale di “Pa kwecha”. Ma le mappe della vita sono fatte anche di passi avanti inattesi. Domingos Batista, il più vecchio del gruppo con i suoi vent’anni, tira fuori carattere e coraggio, assieme alle parole giuste. Conclusione: tre ragazze lasciano, ma due ragazzi nuovi entrano, il gruppo esce rafforzato e il secondo numero di “Pa kwecha”, che esce a novembre, è un altro signor giornale.
Scrivo sul diario in quei giorni: “Viva le rivoluzioni. Quelle piccole, geograficamente circoscritte, che non ambiscono al potere, non occupano palazzi, perché li ritengono irrilevanti. Viva le rivoluzioni. Quelle quotidiane, che non hanno bisogno di anniversari, perché accadono ogni giorno”.
Un processo faticoso
Il tribunale di Chemba ha la sua sede di fianco alla sede del partito Frelimo, sotto un grande albero di ntondo. All’interno, il controsoffitto c’è solo a metà, perché l’altra metà è danneggiata in seguito alle perdite di acqua che provengono dai buchi nel tetto. Nell’aula del processo, date le dimensioni ridotte, si sta stretti, eccetto il giudice che siede su uno scranno imponente. Nello sgabuzzino adiacente, con la porta sbilenca assicurata da un solo cardine, si notano i faldoni dei processi accatastati disordinatamente, consumati dai topi e dalle termiti.
Ho cominciato ad acquisire una certa familiarità col tribunale di Chemba nel novembre dell’anno scorso, in occasione del primo processo per taglio illegale di legname nel nostro distretto. Un mese prima, alcuni uomini erano entrati nell’area recintata della nostra comunità di Pswinta, una delle settanta comunità della nostra parrocchia che si trova all’interno della riserva di Catulene, a circa 90 km da Chemba. Qui, muniti di motosega, senza autorizzazione e senza chiedere permesso a nessuno, avevano tagliato quattro grandi alberi di chakate preto, una specie protetta. A firmare e depositare la denuncia siamo noi, tre preti missionari, a nome della parrocchia di Chemba, assieme alla comunità cristiana di Pswinta e ai suoi due capi villaggio, in qualità di testimoni e di parte lesa.
Nella prima udienza, l’imputato ammette di essere entrato nell’area suddetta senza autorizzazione e di avere tagliato i quattro alberi. L’avvocato d’ufficio non ha nulla da aggiungere. Insomma, il caso sembra molto semplice. Aspettiamo la lettura della sentenza per il medesimo giorno, ma è rinviata. Nel frattempo, veniamo a sapere che il capo degli uomini che hanno tagliato gli alberi è cognato di Zinho, uno dei maggiori boss legati al taglio illegale di foreste - assieme ai cinesi - nella regione centrale del Mozambico.
Passano i mesi. La seconda udienza, a maggio di quest’anno, è kafkiana. L’imputato è assente, l’avvocato d’ufficio non apre bocca, mentre il giudice e il procuratore (che nel diritto mozambicano dovrebbe sostenere l’accusa) difendono l’imputato, dicendo che gli alberi in questione sarebbero stati tagliati all’interno di un’area soggetta a regolare licenza.
Avevo studiato la legge 10/99 che regola il taglio di alberi e foreste, sicché posso citare l’articolo che sancisce i diritti delle comunità e dei privati in aree soggette a licenza, assieme a un articolo del codice penale inerente la questione, suggeritomi da un amico avvocato di Beira. Il giudice, visibilmente impacciato, tergiversa.
Con ogni probabilità sia lui che il procuratore sono stati corrotti dal boss. Il giudice, che pensava di chiudere il caso dando ragione all’imputato, è costretto a fissare un’altra udienza, che sarà preceduta da un sopralluogo sul posto, allo scopo di verificare il fatto; anche se il reato era già stato confessato dall’imputato nella prima udienza.
Due settimane dopo, il giudice corrotto muore di malaria cerebrale. A Chemba, dove gli stregoni pullulano come le zanzare nella stagione delle piogge e dove gli spiriti sono più numerosi degli umani, circolano illazioni su eventuali poteri soprannaturali di padre Andrea. Nel frattempo, è nominato il giudice sostituto che, per lo meno, è una persona perbene.
L’ultimo giorno di luglio ha luogo la terza udienza, mentre per il giorno successivo è fissata la lettura della sentenza. Risultato: l’imputato è condannato al pagamento di una multa di 72.800 meticais (poco più di 1.000 euro, corrispondenti a due mesi di stipendio di un direttore di scuola) e a risarcire la comunità con la somma irrisoria di 4.560 meticais, il puro valore economico dei quattro alberi in oggetto, decisamente sottostimato dal Dipartimento forestale, che vuole essere benevolo con i boss del legname con i quali è fortemente colluso.
Obietto che sarebbe legittimo anche un indennizzo morale per il danno subito dalla comunità, ma il giudice fa il suo dovere: ciò che è scritto, è scritto. Prendo atto che non vale la pena fare ricorso, dato che il sistema mi sembra tutto marcio.
Nel mese di settembre, l’imputato finisce una settimana in carcere per non avere ancora pagato la multa ed esce dopo che il boss ha eseguito il versamento nelle casse dello Stato, mentre la comunità è ancora in attesa delle sue briciole di indennizzo.
Intanto, camion carichi di tronchi tagliati nel distretto di Chemba continuano quotidianamente a correre indisturbati in direzione del porto di Beira.