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La vasca in mezzo alla savana

Dieci anni di Vangelo fra i baobab.

Andrea Facchetti

Il ponte è quello sul fiume Zambesi: lungo circa 4 chilometri, fu costruito negli anni ’30 del secolo scorso in territorio portoghese dagli inglesi che, attraverso la linea ferroviaria che dal Malawi arriva al porto di Beira, realizzavano l’ambizione di uno sbocco sull’oceano Indiano per le colonie dell’Africa australe. Le cinque biciclette che passano sul suddetto ponte, un pomeriggio di fine luglio, caricano scatole e valigie. Le mie. Dentro scatole e valigie ci stanno dieci anni di missione. I miei dieci anni di Africa.

Perché le biciclette? Perché l’unica possibilità per attraversare lo Zambesi è il ponte. E il ponte è ferroviario. Sulle sue rotaie passano ogni giorno tonnellate di carbone che dalla regione centrale del Mozambico sono dirette principalmente in India e in Cina. A lato della ferrovia, sessant'anni fa, venne costruito un passaggio pedonale sul quale, facendo attenzione alle travi mal poste o danneggiate, passano persone e bici. Con la beffa di vedersi passare accanto, per andare lontano, le ricchezze del proprio territorio. Così andava il mondo in epoca coloniale, così continua ad andare nei tempi dell’economia estrattiva, mentre si combatte la terza guerra mondiale a pezzi.

Trasloco in bicicletta per tornare di nuovo a Charre. Dopo soli otto mesi a Sena, belli e anche abbastanza tranquilli, per una serie di avvicendamenti che ci hanno interessati come missionari saveriani in Mozambico, mi viene chiesto di tornare dove già ero stato anni fa. È la terza volta che ci torno in dieci anni. Prima tra il 2014 e il 2015. Poi, dopo i cinque anni a Chemba, alcuni mesi lo scorso anno per dare una mano a un confratello rimasto solo. Di nuovo, stavolta, per rimanerci.

Charre è l’Africa rurale, è la gente semplice che vive di agricoltura, allevando capre e mucche, che ancora si toglie il cappello quando ti incontra per strada. Charre è dove manca un po’ tutto: cibo, strade, scuole, ospedali. Però, per un qualche arcano, non manca il sorriso e la voglia di vivere. Charre è una parrocchia immensa, una fascia di 200 chilometri tra le rive del grande Zambesi e le montagne che fanno da confine col Malawi.

Siamo in tre: Apollinario, João ed io. Un messicano, un brasiliano e un italiano in mezzo alla savana. A Charre abbiamo anche uno studentato che accoglie una sessantina di ragazzi che qui vivono e sono accompagnati durante l’intero anno scolastico, figli di contadini, provenienti da famiglie umili. La scuola diventa una delle poche opportunità per alzare la testa. Per scendere dalle montagne, per oltrepassare il fiume. E aprirsi al mondo.

Tra il fiume e le montagne

Le comunità che compongono la parrocchia sono una quarantina. Abbiamo appena terminato di incontrarle tutte per l’ultima volta prima che inizi la stagione delle piogge. Si è accolti come ospiti attesi, si ascolta la vita della gente, si crede di annunciare il Vangelo e ci si accorge che ci è annunciato, si danza mentre si prega, si mangia polenta e gallina con le mani, ci si lava come si può, si dorme per terra in una chiesetta o in una capanna. I dieci metri quadrati tra la libreria e la veranda sono gli unici della casa dove si ha rete. Finalmente, l'anno scorso, dopo anni di promesse, è arrivata l'energia elettrica.

Raggiungere le comunità è quasi sempre un’avventura. Panadza e Donça si trovano nell’area di confluenza tra lo Chire e lo Zambesi. Per arrivarci si deve guadare un piccolo fiume in canoa. Per quattro mesi all’anno queste terre rimangono sommerse dalle acque. Ad aprile, quando le acque si ritirano, la popolazione che si era rifugiata in una zona più alta, torna nelle zone basse, dove la terra è più fertile, per coltivare soprattutto mais e fagioli. Ogni anno ricostruisce le sue capanne e la sua chiesetta. Che, ovviamente, è una capanna.

Leva, Zuze, Madzalamunda e Chulu sono quattro comunità di montagna, a poche centinaia di metri dal confine col Malawi. A causa della pandemia – in seguito alla quale per quasi due anni il governo ha proibito le celebrazioni – e a causa delle strade impercorribili per vari mesi, erano tre anni che un prete non veniva. La rete del telefono in montagna non arriva. L’unico modo per comunicare è la posta, che consegno a una persona di passaggio, dove avviso quando salirò per incontrare le comunità. Al mio arrivo, con un po’ di meraviglia, constato che le comunità sono ancora vive. Il mese dopo parto di nuovo un sabato mattina all’alba, dormo per terra in una chiesetta e torno domenica sera per incontrare di nuovo tutte e quattro le comunità. “È la fede dei poveri che mi fa ricco”, scrivo sul diario; dove annoto anche la storia di una signora che durante la confessione mi racconta che soffriva di un terribile mal di testa. È andata dal “curandeiro”, che dopo un esame approfondito conclude che il dolore è dovuto a quattro chicchi di granoturco che, non si sa come, si sono conficcati nel lato sinistro della testa, mentre altri tre si sono infilati nel lato destro. Comunque, da quando, con un sortilegio, il curandeiro è riuscito ad asportarli, la signora sta decisamente meglio. “Signora, ma lei ci crede?” le domando. “Padre, li ho visti!”, risponde rasserenata.

Distanze

Per arrivare nelle tre comunità all’estremo opposto della parrocchia, bisogna percorrere 200 km di strada sterrata in 8 ore di jeep tra polvere, sassi e buche. Data la distanza, si va in due e si sta fuori qualche giorno. Qui la lingua parlata è un’altra, il Nyungwe, ma capiscono il Chisena, la lingua che parliamo noi. La poligamia qui è più diffusa che altrove. Per un uomo, essere cristiano vuol dire andare controcorrente e avere il coraggio di mettere in discussione i dogmi sociali della cultura di appartenenza.

A causa delle distanze, c’è il progetto di dividere la parrocchia di Charre e crearne una nuova a Dôa che, ovviamente, non è quella dei mondiali che ha la “H” in mezzo e qualche migliaio di dollari di PIL pro capite in più. Dôa dista da Charre 120 km, è lontana dallo Zambesi e si trova sulla linea ferroviaria del carbone, oltre che su un altopiano sassoso. A Dôa, qualche anno fa, abbiamo acquistato un terreno e cominciato a costruire una casetta che ci serve come punto di appoggio. Il problema è che ancora mancava l’acqua. A metà settembre vado a Dôa per fare due pozzi: uno a pompa sommersa per la nostra casa e uno manuale per il villaggio. Dalla città arriva l’impresa con i macchinari necessari per individuare la presenza di acqua e scavare. Dopo una settimana estenuante di ricerche e dopo avere scavato fino a ottanta metri, di acqua neppure una goccia. Il capitolo “Acqua a Dôa” rimane aperto e sarà necessario studiare come farla arrivare da più lontano.

Guerra, dieci anni fa e ancora oggi

Dieci anni fa, all’inizio di settembre, arrivavo in Mozambico. Pochi giorni dopo, il 4 ottobre, ricorrevano i venti anni degli accordi di pace, firmati a Roma, con la mediazione della Chiesa e del governo italiano, che ponevano fine alla guerra fratricida tra Frelimo e Renamo che in 16 anni (1976-1992) aveva causato oltre un milione di morti. Nelle settimane successive, nella regione centrale del paese, dove lavoriamo noi, ricominciava una guerriglia a bassa intensità tra Frelimo e Renamo, terminata nell’agosto 2019 con un nuovo accordo di pace.

Nel frattempo, nell’ottobre 2017, un’altra guerra iniziava nella regione settentrionale di Cabo Delgado, a circa 800 km da dove ci troviamo. Guerra torbida, fin dagli inizi: jihadismo, povertà endemica, ricchezza di gas e altre risorse, fragilità dello Stato, corruzione, investimenti miliardari delle multinazionali del gas, aspettative frustrate delle comunità locali si intrecciano in una situazione caotica. Negli ultimi mesi gli attacchi jihadisti si spostano verso sud. È così che, in uno di questi attacchi, una notte di settembre, è stata uccisa suor Maria, comboniana italiana, da sessant’anni al servizio del Vangelo e di questo popolo. Il suo sangue si unisce a quello delle migliaia di vite uccise e alla sofferenza del milione circa di persone fuggite dalla guerra.

Succede anche che alcuni giorni fa, il 13 novembre, a qualche decina di km da dove tutto questo avviene, in mezzo all’oceano, sia partito, da una piattaforma galleggiante lunga 432 metri di proprietà dell’ENI, il primo cargo di gas naturale liquefatto. È il primo in assoluto nella storia del Mozambico, che dovrebbe diventare nei prossimi anni il 3° produttore di gas naturale in Africa e il 9° al mondo. Guerra permettendo, dato che solo alcuni giacimenti sono off-shore, mentre gli altri sono sulla terraferma. La sola ENI promette di produrre 3,4 milioni di tonnellate di gas all’anno. Assieme all’ENI ci sono la francese Total, la statunitense Exxon Mobil, la cinese Cnpc, la giapponese Mitsui, la portoghese Galp. I loro investimenti nell’area arrivano finora alla cifra astronomica di 55 miliardi di dollari. Si calcola che nelle casse dello stato mozambicano, solo col gas, nei prossimi 25 anni entreranno circa 20 miliardi di dollari. Per ora il Mozambico rimane il 7° paese più povero al mondo, è posizionato tra i primi 30 più corrotti ed è classificato come regime autoritario.

Il Vangelo tra i baobab

Un pomeriggio, mentre sto visitando i poveri e i malati, noto una cosa che mi lascia incuriosito: una vasca da bagno. “Cosa ci fa una vasca da bagno in mezzo alle capanne?” chiedo ad Emilio, caro amico che mi accompagna. Ci avviciniamo. È una vasca degli anni ’60 quando, in epoca coloniale, vivevano qui a Charre alcune famiglie di coloni portoghesi. Sono passati più di cinquant’anni, due guerre - quella di liberazione e quella civile - e la vasca è ancora lì, appoggiata su alcuni mattoni, in mezzo alla sabbia. Lì di fianco c’è una pila di mattoni cotti. Probabilmente la vasca serve per contenere l’acqua usata per fabbricare i mattoni. Di cinquecento anni di colonialismo, qui a Charre, rimane una vasca in mezzo alla savana.

Penso al Vangelo, che qui tra la sabbia e i baobab è stato aperto per la prima volta sessant’anni fa, che non è estraneo come una vasca in mezzo alla savana, perché ha messo radici nel cuore delle persone. Penso al cammino delle comunità cristiane. Penso alle storie della gente quando racconta commossa gli anni della guerra civile alla fine degli anni ’80: le suore rapite, i missionari che dopo un attacco portavano i malati in ospedale e, quando la guerra imperversava, andarono a vivere con la popolazione nei campi di rifugiati nel Malawi.

Penso al nostro lavoro in questa terra. Penso a questi miei dieci anni, a quanto sto imparando. Penso a quanto il mio cuore si dilata per mettersi dentro la vita degli altri, mentre mi accorgo che gli altri hanno già fatto spazio nel loro per mettersi dentro la mia. Penso alla vita, che ci è donata per donarla agli altri, al bene che ciascuno riceve e al bene che ciascuno semina accanto a sé. Credo fortemente in questa potenza del Vangelo e del bene che trasformano i cuori e il mondo. Credo che in tutto questo abiti Dio. Credo che tutto questo sia Dio.