Sul PD, a Roma e a Trento
Mi riconosco nei richiami accorati di Prodi e Veltroni all’unità del centrosinistra e penso che l’autorevolezza dei loro appelli venga dalla sincerità di parole che non nascondono secondi fini e dalla coerenza delle vicende politiche da cui provengono. Quella dell’Ulivo e quella fondativa del Partito Democratico che avrebbe dovuto diventare la forza larga e plurale in grado di accogliere e dare casa a storie e sensibilità diverse nel vasto campo della sinistra, quella cattolica, quella laica ed ambientalista, quella erede del socialismo e del comunismo italiano.
Non è andata così, almeno per ora, e le responsabilità sono molte. Fatto sta che, specie negli ultimi due anni, il PD, anziché essere una forza che accoglie e unisce, è diventato divisivo e perde pezzi; anziché coltivare il confronto e la collegialità è diventato il partito del leader e del “con me o contro di me”. In questo contesto, che Renzi più di altri ha contribuito a creare, le differenze nella sinistra si sono radicalizzate fino a raggiungere la sensazione di non poter convivere. E se da un lato domina la convinzione che il consenso delle primarie legittima ad andare avanti da solo senza tener conto degli altri, dall’altra si è finito con l’entrare in conflitto con tutte le proposte messe in campo, anche quelle su cui si potrebbe essere più flessibili e dialoganti e meno tranchant (politiche del lavoro, voucher, buona scuola …)
Ma tant’è, la situazione è questa e bisogna farci i conti. Rimane il rammarico per il penoso trascinarsi dei tentativi di accordo, tenuti in piedi nonostante la sempre più chiara evidenza che non si voleva fare (era meglio dirlo subito) e per la figura tragica di Pisapia, la vittima di questo tira e molla, tenuto a bagnomaria da Bersani e C. per poi mollarlo al suo destino, che temo sarà quello dell’insignificanza. Mi dispiace perché la sua posizione cercava di tenere insieme una forte tensione unitaria con la necessità di dare visibilità a chi non si riconosce nel renzismo e spinge per una discontinuità a sinistra rispetto al recente passato. E lo faceva fornendo un’immagine, la sua, meno logora e incattivita rispetto a molte che ci ritroviamo in Liberi e uguali. Del resto è difficile contestare che sul piano del consenso, rimanere legati alla coalizione con questo PD sarebbe stato letto come accettazione di subalternità da troppi elettori delusi e lontani. Tanto più che è stata negata la possibilità del voto disgiunto che avrebbe fornito interessanti possibilità e chiavi di lettura.
Si dice: “separati si perde”, e probabilmente si perderà, ma poiché bisogna comunque guardare avanti e poiché Bersani e Grasso non sono estremisti gruppettari a vocazione minoritaria, è necessario capire cosa immaginano per il futuro. Secondo me la scommessa è che dalle urne esca un successo forte di Liberi e uguali, che avvenga però quasi interamente dal recupero di voti dall’astensionismo e non da un’emorragia del PD. Che il PD inevitabilmente arretri ma non di molto, trovandosi poi, forse anche ai fini di realizzare una maggioranza di governo, a dover scegliere se ricostruire un centrosinistra a baricentro molto più a sinistra di prima o riaprire le larghe intese con Forza Italia. E quest’ultima ipotesi potrebbe addirittura apparire una sorta di male minore rispetto a un governo in cui sinistra e centrosinistra fossero fuori gioco.
Sul piano locale la situazione non è più felice. Qui la coalizione di centrosinistra autonomista sembra tenere ma i suoi contorni e le sue linee di fondo non si precisano ed anzi si annacquano. Nel PD la decisione dell’ultimo congresso per una svolta unitaria sul segretario Gilmozzi a Trento e su Renzi a Roma è forse riuscita a mettere un velo sopra la rissosità interna, ma non ha prodotto una riflessione comune e le posizioni che emergono sembrano sempre riferibili all’iniziativa dell’uno o dell’altro amministratore più che espressione della visione del partito sulle cose da fare e sulle prospettive di sviluppo. Non si fanno inoltre passi avanti verso un PD del Trentino che, anche in relazione ai temi dell’Autonomia, si vorrebbe meno autoreferenziale, più inclusivo e propositivo. Anzi, la minoranza interna sembra sempre più emarginata ed anche a Trento riecheggia troppo spesso lo stile nazionale: “O con Renzi o fuori”. Il recente percorso di riavvicinamento con l’UPT manca di chiarezza su temi e posizioni di fondo che lo motivino e sembra mosso da preoccupazioni difensive e contingenti, mentre sul fronte del PATT, nonostante la proclamata fedeltà alla coalizione, si ha la sensazione di una disponibilità a muoversi in direzioni ritenute convenienti, anche senza bussola o paletti. Come quando accoglie il consigliere Viola che arriva in maggioranza esibendo il peso di un’intera area politica che ha una storia e dei riferimenti culturali e sociali ben precisi e molto diversi da quelli del centrosinistra.
Diversamente dal piano nazionale, qui il rischio alle prossime elezioni locali forse non è quello di perdere (a meno che non arrivi a destra qualche messia), ma quello di arretrare sempre più l’azione di governo, limitandola alla gestione dell’esistente, senza la capacità di cogliere le sfide del futuro, non facendo scelte coerenti di cambiamento e accorciando invece lo sguardo alla contrattazione sulle convenienze del momento.
Maurizio Agostini è stato segretario provinciale del Partito Democratico.