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QT n. 3, marzo 2017 Servizi

Fatta la legge gabbato lo santo?

La nuova legge sul porfido: cominciamo ricordando i precedenti

Aldo Sevegnani, Walter Ferrari, Massimo Sighel

Sulla devastante crisi del settore del porfido, e sulla nuova legge che nelle intenzioni dovrebbe rimediarvi, QT ha più volte scritto, da ultimo nel numero di febbraio (“Ancora sul porfido” a cura di Sandro Gottardi). Il Coordinamento Lavoratori Porfido ci ha inviato una sua appassionata analisi della crisi, della legge, dei laceranti rapporti nelle comunità locali. Volentieri, in due puntate, la pubblichiamo.

Solo alcune vicende giudiziarie e qualche coraggiosa inchiesta giornalistica hanno aperto qualche squarcio nel velo steso, dopo l’approvazione della L. P. 7/ 2006 e la conseguente istituzione del Distretto, sul degrado del settore del porfido. Ora una nuova legge Olivi-Viola-(Fugatti), fatta con la sbandierata intenzione di arrestarne il degrado, proprio da parte di chi ne è stato corresponsabile, rischia di trasformarsi nella foglia di fico dietro la quale continuare a nascondere le magagne del settore. Ma andiamo per gradi e vediamo quale idea del settore è possibile farsi, al di là delle rappresentazioni di facciata, proprio a partire dagli squarci nel velo di cui sopra, e quali novità, in relazione ai fatti narrati, porti la nuova legge.

La causa contro le ASUC.

La sentenza, che chiude un lungo contenzioso tra Comuni e ASUC per la proprietà della p.f. 2452/2, nella zona estrattiva di S. Mauro, è stata depositata solo qualche settimana fa dal dott. Marco La Ganga, in veste di Commissario per la liquidazione degli usi civici. Il contenzioso era iniziato oltre 10 anni fa, quando le ASUC, in modo diretto e senza adottare i criteri stabiliti dalle norme provinciali, concessero a licitazione privata i tre lotti estrattivi insistenti su tale particella con canoni di concessione più che doppi rispetto ai lotti circostanti. Per capirci, i canoni per i due lotti delle ASUC attivi nel 2015 erano rispettivamente pari a 7,11 e 10,58 euro al metro cubo, mentre il canone medio dei lotti della stessa zona gestiti dal Comune con canoni calcolati secondo i criteri stabiliti nella legge provinciale ammonta a 4,48 euro a metro cubo.

Occorreva far cessare questa anomalia che avrebbe potuto attirare l’attenzione su un meccanismo di calcolo dei canoni, introdotto nel 1993 su spinta del cav. Ezio Casagranda, quando in rappresentanza degli imprenditori sedeva in Consiglio provinciale, che consentiva canoni enormemente ribassati rispetto ai prezzi di mercato del porfido. Questo anche grazie al sistema delle proroghe delle concessioni che, evitando aste pubbliche, mantenevano per così dire nascosto il vero valore di mercato del porfido, con grave danno per le casse comunali e a tutto vantaggio dei concessionari di cava.

Spinti dalla sezione porfido di Confindustria, di cui era allora rappresentante Marco Stenico, i comuni di Baselga di Pinè e Lona-Lases promossero una causa nei confronti delle ASUC rivendicando la proprietà della suddetta particella fondiaria. Ciò, nonostante vi fossero documenti inoppugnabili circa la proprietà in capo alle ASUC (più il Comune di Bedollo), documenti appartenenti alla ex Comunità Generale di Pinè, sia risalenti al 1700 che ai primi decenni del ‘900. Così, ancora una volta, le amministrazioni locali han dato prova della loro sudditanza rispetto alla lobby dei concessionari, facendo tra l’altro sostenere delle spese alla comunità per un’azione volta implicitamente a tutelare gli interessi della lobby del porfido.

In questa vicenda merita un accenno, sempre a proposito di arroganza dei concessionari, la vicenda personale dell’attuale presidente ASUC di Miola (capofila nella gestione dei lotti in questione e nella causa appena conclusa), che nel 2008 subì il licenziamento da parte di una ditta del porfido a causa della sua coerenza nel difendere i diritti delle ASUC. Non è una novità: chi osa disturbare il manovratore nella zona del porfido subisce pressioni, ricatti e ritorsioni con l’obiettivo di mettere a tacere o ridurre all’impotenza ogni voce critica.

Tornando alla questione centrale sottesa al contenzioso, cioè il valore dei canoni fissati dalle ASUC, facciamo due conti: se prendiamo l’anno pre-crisi 2007, i volumi estratti ammontavano a 685.000 metri cubi e il canone medio era di 3,26 euro al mc e nelle casse comunali entrarono quindi 2.154.000 euro; se invece si fosse applicato un canone pari a quello medio delle ASUC nel 2006, cioè 7,665 euro, il Comune avrebbe incassato 5.171.000 euro, con una differenza di ben 3.017.000 euro! Un bel regalo finito nelle tasche dei concessionari, che spesso in questi Comuni sono, in prima persona o attraverso parenti o amici, anche consiglieri, assessori e sindaci.

Se poi allarghiamo il discorso, come fa Legambiente nel rapporto cave 2017, rileviamo l’irrisorietà dei canoni di concessione applicati in Italia nell’insieme del comparto lapideo, pari al 2,3% del prezzo di vendita, rispetto ai canoni del Regno Unito, pari al 20%, con una perdita per le Regioni o le Province autonome, secondo Legambiente, di ben 545 milioni di euro l’anno, cioè di 3,5 miliardi dal 2009 ad oggi.

“L’età della pietra” e le inchieste dell’Adige

L’età della pietra” era il titolo del documentario girato da Federico Betta e Alessandro Genovese nel 2009-10 nel settore del porfido, che coglieva il divario tra la facciata presentata dai rappresentanti dell’imprenditoria e la realtà, caratterizzata da scarsi investimenti, alti profitti, esternalizzazione massiccia delle lavorazioni ad aziende artigiane e forte sfruttamento, condito da ricatti, in particolare nei confronti dei lavoratori extracomunitari.

Stizzita fu la reazione dell’imprenditoria locale quando, il 1° maggio 2011, il documentario fu proiettato fuori concorso, al Filmfestival della montagna di Trento: l’allora presidente del Distretto Giannotti dichiarò al Tg3 che quella non era la realtà del settore. Purtroppo per lui, dopo qualche anno quella realtà emerse prepotentemente dalle inchieste coraggiosamente condotte dal quotidiano L’Adige, per opera soprattutto di Domenico Sartori.

Basta scorrere alcuni titoli per rendersi conto di quale realtà si nascondesse dietro la facciata del Distretto e della filiera con tanto di protocollo etico, ma soprattutto dietro l’ennesima proroga delle concessioni avvenuta nel 2011 e motivata con la necessità di non mettere a rischio centinaia di posti di lavoro.

Il 29 settembre 2013 L’Adige titolava: “Pagamenti dilazionati per le ditte del porfido”, riportando un emendamento del capogruppo di minoranza Fabio Fedrizzi al Consiglio comunale di Lona Lases, che vincolava la concessione di proroghe per il versamento dei canoni alla regolarità retributiva e contributiva da parte della ditta verso i dipendenti. “Con la scusa della crisi questi signori sistematicamente non pagano le maestranze, licenziano senza dire nulla a nessuno e addirittura qualcuno va a lavorare in nero” - dichiarava Fedrizzi, che ricordava che “compito del Consiglio è di garantire i livelli occupazionali”.

In successivi articoli Francesco Terreri riportava i dati della crisi: gli addetti ridotti a 714 nel 2013, il fatturato passato a 37,5 milioni nel 2013 dai 54,2 del 2011, i canoni incassati dai Comuni dimezzati, la cassa integrazione aumentata del 33%.

Il 2015 è l’anno in cui, grazie all’impegno del Coordinamento Lavoro Porfido (sorto nel gennaio 2014), molti nodi vengono al pettine: i Comuni, incalzati da precise richieste, sono costretti a procedere alle prime verifiche sulla regolarità retributiva e contributiva dei concessionari, così come prevedono i disciplinari di concessione e la legge provinciale, anche se l’intervento dei Sindaci non è obbligatorio (art. 28 L.P. 7/2006) ma discrezionale.

Così sui quotidiani iniziano ad apparire anche notizie relative a verifiche e provvedimenti, come sull’Adige del 3 aprile 2015, che titola: “Non paga i lavoratori e il Comune la blocca”, una vicenda che si conclude con la notizia sullo stesso quotidiano del 24 settembre: “Revocata la concessione alla Diamant”, primo caso nell’area estrattiva dopo l’entrata in vigore della legge 7/2006. Altri titoli significativi nel corso del 2015 sono: “Tra le cave crescono disagio e povertà” del 26 luglio, “Cave: anche la Provincia è stata inadempiente” del 22 agosto e “Lavorare senza paga: ora alzo le mani” del 6 settembre, con un’intervista a Chahid Abdeslam, operaio marocchino che da tre anni viveva una condizione di estremo disagio per i ritardi anche di mesi con cui la ditta lo pagava. Una situazione di degrado sancita ufficialmente dalle risultanze del “Tavolo di coordinamento per la valutazione delle leggi provinciali” presieduto dal consigliere Walter Viola: nella relazione conclusiva del dicembre 2015 vengono evidenziate molte delle criticità denunciate: “Il Distretto del porfido e delle pietre trentine previsto dalla legge provinciale non ha corrisposto in modo adeguato al ruolo che la legge ha inteso assegnargli”. Come mai?

Perché, nonostante la legge 7/2006, “gli elementi di debolezza del settore preesistenti alla sua approvazione – ridotte dimensioni aziendali, forte frammentazione, basso livello di formazione, scarsa innovazione, limitata apertura alla dimensione internazionale – continuano, per la gran parte, a caratterizzare le attività del comparto”. Il che equivale a certificare il fallimento perlomeno dei fini dichiarati della legge del 2006, approvata sotto la regia dell’allora assessore Benedetti (di cui era segretario Ezio Cristofolini, ex direttore del Consorzio cavatori di Fornace), con l’apporto fondamentale di Marco Stenico (allora rappresentante del porfido in Confindustria) e del consigliere provinciale Tiziano Odorizzi, ex sindaco di Albiano, ma soprattutto amministratore della Odorizzi spa, allora una delle più potenti imprese del porfido. Parliamo di “fini dichiarati” perché in realtà quella legge, cui si contrapponeva una proposta lungimirante avanzata dai consiglieri Pinter, Bombarda, Viganò e Catalano, aveva come obiettivo quello di consentire alle imprese concessionarie di continuare sulla strada della esternalizzazione massiccia delle lavorazioni (realizzando così una evidente compressione del costo del lavoro, delegata però alle imprese artigiane), intrapresa un decennio prima incentivando le partite Iva.

Il malaffare

Il 3 maggio 2014, come un fulmine a ciel sereno, arriva la notizia che “nel carico di porfido” erano “nascosti 200 chili di coca” e stavolta è il Trentino a dare più risalto alla notizia con un articolo di Ubaldo Cordellini. Nel sottotitolo si legge: “La droga sequestrata in Spagna all’interno di un container inviato da una società della Patagonia argentina che fa capo a imprenditori trentini” che, com’è noto, sono presenti con attività estrattive nella regione patagonica del Chubut.

Ciò che si legge nell’articolo inquieta: pare infatti che il carico sequestrato, del valore al dettaglio di 20 milioni di euro, facesse “parte di un traffico molto prospero organizzato già da 5 anni da alcuni emissari colombiani con la complicità dei titolari della società del porfido”. L’articolista afferma che “così l’ex oro rosso anche in tempi di crisi nera avrebbe continuato a portare ricchezza, ma solo perché scusa per il traffico internazionale di cocaina”. La notizia rimbalza anche sui quotidiani nazionali, un’intera pagina vi dedica il Manifesto del 19 agosto, sottolineando l’accoppiata “Porfido & coca” ed evidenziando l’inquietante pista che dall’Argentina porta al Trentino. Nell’articolo, di Sebastiano Canetta e Ernesto Milanesi, viene data notizia di una perquisizione avvenuta nella sede legale della United Stones, società che ha movimentato il carico a Puerto Madryn e che apparterrebbe appunto anche a imprenditori trentini e di origine trentina sarebbe anche la legale rappresentante. Gli autori notano poi come il fascicolo informativo sia “già stato segnalato alla Commissione antimafia”, sottolineando che “spetta alla presidente Rosi Bindi decidere di approfondirlo, a cominciare dalla completa identità dei protagonisti italiani”.

Un’altra vicenda non meno inquietante viene portata alla ribalta della cronaca dall’Adige il 6 gennaio 2016 con un articolo titolato: “Operaio pestato in una cava di porfido”. I fatti narrati risalgono però al 2 dicembre 2014, quando un operaio cinese, dipendente di una delle tante ditte artigiane presso le quali è stata esternalizzata in particolare la produzione di cubetti, è stato sequestrato per un’ora dai titolari, “minacciato con una pistola a tamburo, legato e picchiato”.

L’operaio (di cui si racconta la vicenda a pag. 32), che reclamava arretrati salariali per diversi mesi di lavoro sia regolare che in nero, è finito in codice rosso al pronto soccorso del Santa Chiara. Assistito dall’avv. Giampiero Mattei su interessamento del C.L.P., l’operaio ha denunciato gli aggressori e, dopo un anno di indagini della Procura, il giornale dà notizia della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal PM. Le motivazioni sono: “sequestro di persona e lesioni gravi, con le aggravanti di aver agito in circostanze che ostacolavano la difesa (in una zona buia, isolata e, a quell’ora, poco frequentata), delle minacce di un’arma e di aver provocato l’indebolimento permanente dell’organo della masticazione”. Nel frattempo l’operaio, assistito dall’avv. Lorenza Cescatti, ha promosso contro la ditta Balkan Porfidi e Costruzioni una causa di lavoro conclusasi il 12 luglio 2016 con la condanna della ditta a pagare 34.000 euro per retribuzioni maturate e non pagate. Purtroppo nel frattempo i titolari della ditta, due dei quali autori del pestaggio, hanno ceduto la totalità delle quote a un cittadino cinese domiciliato a Boscoreale (Napoli) che però non è stato possibile rintracciare, quindi l’operaio non ha potuto recuperare nemmeno un euro.

Anche sul versante penale si è giunti al rinvio a giudizio da parte del Gup dei tre autori del pestaggio e, il 4 novembre 2016, alla loro condanna da parte del dott. Marco La Ganga, che ha inflitto loro 2 anni e 8 mesi di reclusione riconoscendo tutti i capi di imputazione addebitati loro dal PM.

La terza vicenda emblematica è quella relativa alla ditta Anesi srl operante a Lona-Lases, della quale dà notizia ancora una volta l’Adige del 14 ottobre 2016 col significativo sottotitolo “Attività sospesa e avvio della procedura di revoca”.

In giugno la ditta aveva già subito una sospensione in seguito a una segnalazione del perito Oberosler del Servizio Minerario che aveva verbalizzato l’asportazione di materiale dal lotto adiacente, revocata però dal sindaco Marco Casagranda in seguito a una perizia commissionata dal Comune che in qualche modo scagionava la ditta. Questa volta però, dopo una lunga serie di violazioni (5 diffide e 2 sospensioni tra il 2010 e il 2014), la dott.ssa Miori, accogliendo le richieste della Procura, ha rinviato a giudizio Mario Giuseppe Nania in qualità di legale rappresentante della Anesi srl per “estorsione e truffa aggravata” e Giuseppe Battaglia in qualità di legale rappresentante ad acta “per la responsabilità che compete a una società nel caso di un reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio”. Anche questa vicenda prende le mosse nel 2014 quando, il 7 aprile, il Coordinamento Lavoro Porfido chiede a tutti i comuni della zona del porfido di verificare la regolarità contributiva e retributiva delle ditte concessionarie o autorizzate. Baselga di Pinè, Fornace, e Cembra si trincerano inizialmente dietro la mancanza di personale preparato; Albiano, dopo qualche titubanza, affida il tutto a una autocertificazione da parte delle ditte e in un secondo tempo incarica delle verifiche la So.Ge.Ca (società controllata dai cavatori), mentre Lona-Lases chiede ai concessionari di fornire la documentazione comprovante l’avvenuta retribuzione dei dipendenti. Questo, a dire il vero, dopo che con una nota del 6 maggio il Servizio Minerario, pur precisando che ciò non rientra nelle sue prerogative, comunica che a seguito di un controllo nella zona estrattiva “Pianacci” ben 3 ditte su 4 non erano in regola col versamento dei salari, con ritardi anche di molti mesi.

Per quanto riguarda la Anesi srl, i successivi accertamenti portarono alla luce anche mancati versamenti contributivi INAIL e INPS relativi agli anni 2013-14. Va ricordato che gli accertamenti fatti dal Comune di Lona-Lases sono stati resi possibili grazie all’impegno del segretario comunale dott. Marco Galvagni, l’unico nella zona del porfido ad aver evidenziato nel “Piano anticorruzione” i pericolosi condizionamenti dovuti alla commistione tra concessionari ed amministratori comunali. Fatto sta che dagli accertamenti della Procura è emerso che Nania, quale amministratore della Anesi srl, “avrebbe sotto minaccia costretto 6 dipendenti a firmare una dichiarazione con cui attestavano di essere stati regolarmente retribuiti” e inoltre, mediante autocertificazione, avrebbe dichiarato rese inferiori al reale per un importo stimato in circa 48.000 euro, da cui la truffa aggravata nei confronti del Comune. In merito alla seconda accusa è stato tirato in causa anche Giuseppe Battaglia, legale rappresentante ad acta che, ricordiamo a proposito di commistioni di interessi, è stato consigliere comunale dal 2000 al 2005 con la maggioranza guidata da Dalmonego, quindi nominato assessore esterno alle cave durante la prima legislatura dell’attuale sindaco Marco Casagranda (anch’egli imprenditore e concessionario di cava) tra il 2005 e il 2010, mentre il fratello Pietro Battaglia era consigliere comunale di maggioranza e dal 2011 al 2014 membro dell’ASUC di Lases con delega alle cave. Anche nell’attuale consiliatura i Battaglia sono rappresentati nella lista del sindaco da Demetrio Battaglia figlio di Giuseppe, anche se recentemente ha rassegnato le dimissioni unitamente ai consiglieri Moyra Fontana e Fulvio Micheli, eletti sempre nella lista del sindaco Casagranda ma facenti riferimento alla Lega Nord.

Aldo Sevegnani e Walter Ferrari (CLP)

Massimo Sighel (consigliere comunale di Baselga di Pinè)

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La seconda parte nel prossimo numero