I luoghi del sentimento
Giuseppe Angelico Dallabrida
Non sono molti gli artisti dediti al paesaggio in cui troviamo un sentimento della natura così carico di accenti interiori come in Giuseppe Angelico Dallabrida. E, benché alcuni aspetti del suo linguaggio pittorico affondino le radici nell’ottocentesca Scapigliatura lombarda, percepiamo chiaramente che in lui non c’è traccia di atteggiamento di maniera. La mostra in corso ad Arco (Palazzo dei Panni, fino al 3 maggio, a cura di Fiorenzo Degasperi e Giovanna Nicoletti che già curarono con Danilo Eccher la più vasta personale del 1990 alla Civica di Trento) ricompone alcuni cicli di opere disseminate (come la quasi totalità della produzione di Dallabrida) presso collezionisti privati, attorno a nuclei tematici che gli furono particolarmente cari, facendo intendere come l’autore non solo praticasse la pittura en plein air come unica modalità di lavoro, ma anche amasse accostarsi molte volte allo stesso soggetto (luogo) in diversi momenti, quasi sempre nelle ore di luce serale.
Questi aspetti, insieme a una pittura frammentata, per tocchi irregolari, hanno fatto parlare di lui come di “ultimo impressionista” tra i pittori trentini attivi nei primi decenni del Novecento (era nato a Caldonazzo nel 1874, morirà a Mezzolombardo nel 1959). Ma c’è qualcosa che lo distingue piuttosto profondamente da loro. Gli impressionisti erano, al fondo, dei realisti; lui, un lirico. Loro erano fedeli alla percezione della realtà, pur esaltandone la componente di luce e colore; lui, bisognoso di immettervi una tale partecipazione emotiva che la realtà ne viene tutta impregnata.
Allo stesso modo, la lezione che gli viene dai suoi primi importanti maestri, Eugenio Prati e Bartolomeo Bezzi, egli la piega in una propria autonoma e intima direzione, del resto scansando anche le ricerche innovative incontrate nei soggiorni milanese e veneziano, negli anni di Ca’ Pesaro che furono così fecondi per altre figure centrali dell’arte trentina come Moggioli e Garbari. In questo senso lui rischia l’anacronismo, ma lo riscatta con la nota autentica dello sguardo e della mano. Ha dato inoltre agli storici discreti problemi di riordino temporale, perché non datava le opere (poche volte le firmava) nei suoi vagabondaggi. Uniche date certe quelle dei dipinti a Mittendorf, sfollato come molti trentini ai tempi della Grande Guerra. La tristezza che promana da queste opere ha origini storiche e affettive evidenti (è in quella circostanza che perde la madre). Ma anche i successivi cicli sono sotto il segno della malinconia, ancorché filtrata (come ha notato Degasperi) da una sorta di febbrile euforia dello sguardo. Così è per i cicli su Castel Toblino, San Michele all’Adige, Caldonazzo, nei quali cielo e terra sono immancabilmente coniugati all’acqua, elemento primigenio. Non siamo in un tempo storico, e nemmeno in una topografia dei luoghi. La figura umana è come compenetrata alla natura, a volte appena distinguibile nello sfaldarsi vaporoso delle forme. Nel cercare la giusta distanza per mettere a fuoco queste visioni, ci coglie il sospetto che la tecnica svaporata di Dallabrida sia più di una tecnica, sia il modo per farci sperimentare il fragile limite oltre il quale si sfalda la percezione di una natura separata, e noi possiamo perderci in essa.