Boyhood
Ordinarietà americana
“Incredibile come passa il tempo!”. Ce lo diciamo davanti al figlio di qualcuno che si ricordava bambino e nell’arco di pochi anni è già un ragazzo totalmente diverso. Quel tempo a noi non è sembrato tanto perché la vita è ordinaria routine e i nostri sono ormai per lo più piccoli mutamenti. Per loro, i ragazzini, è invece una lunga, intensa serie di evidenti trasformazioni esteriori e interiori.
Ecco cosa racconta questo film: la fanciullezza e l’adolescenza. Epoche in cui maggiormente si muta, quelle in cui si pongono le radici della nostra vita; quelle di cui, nella vita adulta, ricordiamo più intensamente gli episodi importanti. Perché in effetti sono esperienze e scoperte nuove, intense, che incidono per la prima volta una sensibilità vergine ed inesperta, lasciando profondi segni indelebili.
“Boyhood” è, dall’infanzia all’adolescenza, la vita del ragazzino texano Evans Mason e della sua famiglia. Un film girato in 39 giorni distribuiti nell’arco di 12 anni, dal luglio 2002 agli inizi di quest’anno, con attori professionisti e non, che nel tempo crescono, invecchiano, cambiano realmente. Narrazione in un blocco unico che fluisce da un anno all’altro, da una situazione all’altra senza stacchi, e i passaggi sono percepiti dai contesti e dai personaggi.
Ho letto diverse recensioni e tutte sono entusiastiche. Anzitutto raccontano come è stato fatto il film, che in effetti è piuttosto originale, e poi raccontano la storia.
Ma dopo essere uscito dal cinema e averci molto pensato, mi sono detto che la tecnica e la storia non sono altro che strumenti per ricordare a tutti noi quanto è vera e significativa e profonda quell’epoca dalla quale non facciamo altro che grandi sforzi per emanciparci, anche quando sappiamo che è la radice vera della nostra esistenza.
Scrittura, regia, montaggio si sono impegnati a raccontare una storia ordinaria: la vita quotidiana della normalità. Purtroppo in questo profondo e sentito intento realistico, sceneggiatura e personaggi risultano a volte retorici e prevedibili quanto quelli di una qualsiasi opera di fiction con al centro il racconto di formazione, l’adolescenza e i suoi riti di passaggio.
Va bene l’intento di raccontare l’ordinarietà americana, ma questa è davvero così, una serie di stereotipi tipici del cinema Usa? Il padre lontano ed eterno adolescente; la mamma stressata nel dare amore, educazione e regole ai figli e nel frattempo risoluta ad un’emancipazione socio-cultural-economica; il secondo marito inizialmente affettuoso che poi si trasforma in mostro alcolista; Evan bistrattato dai bulli a scuola, Evan che soffre i cambi di casa, città e famiglia, Evan che man mano che cresce diventa sempre più introverso e sensibile e trova una sua via espressiva artistica che lo gratifica... Ordinario è retorico? O è così solo nel cinema nordamericano?
Insomma, una struttura molto realistica con percorsi molto fiction che ha un grande fascino, ma lascia anche un po’ perplessi. Meglio sicuramente la prima parte più sciolta e naturale, mentre nella seconda non mancano i lunghi dialoghi tipici dei film di Linklater (molto bello quello del padre col figlio nel teatro prima del concerto rock dell’amico), molto pensati e scritti, che non appartengono a nessuna realtà, se non a quella dei film del regista.
Ok, un film non è realtà, al massimo realismo. Ma allora perché questo impianto che ci avvicina al massimo alla realtà, se poi si scade in tanta prevedibilità? Ma forse la domanda vera è un’altra: l’intento del regista di far rivivere direttamente quell’epoca, quei passaggi, farci ricordare le cose profondamente vissute, nella più prevedibile ordinarietà della vita, funziona? Ecco, a mio parere il film è bello e riuscito a seconda della risposta che personalmente ognuno si dà.