Mauro Rostagno sorridendo
Il sorriso di Rostagno, e quello dei suoi assassini. Adriano Sofri. Palermo, Sellerio. 2014, pp. 158, € 12
Questo volumetto di Sofri su Rostagno non è una biografia, non racconta la vita del leader del movimento studentesco della prima Sociologia di Trento, né ne traccia un ritratto a tutto tondo; anche se un ritratto, fra le righe, c’è anche. È un libro sul processo ai suoi assassini, conclusosi con la condanna del boss mafioso di Trapani Virga come mandante e del killer Mazzara, un tiratore scelto della mafia trapanese. Non era affatto scontato questo esito: nonostante Rostagno sia stato freddato dopo la trasmissione contro la mafia che teneva presso una televisione privata trapanese, le indagini si sono sguinzagliate per più di un quarto di secolo in tutte le altre direzioni possibili, vivisezionando la vita della vittima e dei suoi congiunti ed amici alla ricerca delle ipotesi più astruse, non mancando neppure di tirare ad un certo punto in ballo anche l’autore del libro, ipotizzando qualche rapporto dell’agguato di Trapani col processo Calabresi.
Sofri è un esperto in processi, a partire da quello che ha travolto la sua vita, il processo per l’omicidio del commissario Calabresi. Ha passato una buona parte dei suoi anni a svoltolare le carte delle sue imputazioni, i verbali, e a valutare il comportamento in aula di giudici e testimoni. Ha scritto lui, dall’interno, libri sul suo processo, e molti altri li ha dovuti leggere, scritti da altri. Così è diventato uno specialista in questo genere letterario. Forse dire “genere letterario” è un po’ riduttivo. Di articolo in articolo, e di libro in libro, la sua è una profonda riflessione (anche questa di più d’un quarto di secolo) sulle procedure giudiziarie ed il loro senso, non solo giudiziario.
Affronta quindi il racconto del processo per l’assassinio del compagno di una vita Rostagno con un proprio sedimentatissimo punto di vista, in cui il processo diventa un paradigma sociale fondamentale, le aule giudiziarie uno dei luoghi cruciali per guardare il mondo, un po’ alla Foucault. Nel suo caso, però, ne esce una morale illuministica, una accettazione dei meccanismi processuali razionalistica e pessimista, ma costruttiva: “Per il processo, è più esattamente vero quello che si dice della democrazia, che è il peggior modo di governare ad eccezione di tutti gli altri: il processo in uno Stato di diritto, che del resto è sinonimo di democrazia, è il peggior modo di fare giustizia a parte tutti gli altri. E che gli altri siano peggiori, non toglie che il processo sia terribile. E che l’impunità pressoché illimitata concessa alle parti dentro il rito processuale sia spesso oltraggiosa. Le garanzie che il processo deve concedere a tutte le parti coincidono con la sospensione delle garanzie che la vita civile riconosce ai cittadini. Tutto può essere detto, insinuato, gridato”.
Così Sofri si immerge nella prima parte del libro in questa antropologia giudiziaria fatta di collaboratori di giustizia che “indipendentemente dal processo, offrono squarci memorabili su atti e parole di questi uomini d’onore” e sulla provincia trapanese, di carabinieri che “hanno candidamente dichiarato di non aver mai seguito la pista mafiosa perché nessuno gliel’aveva ordinato, e non ritenevano di farlo di propria iniziativa”, di periti di parte (mafiosa) - già a capo del RIS di Parma - che assicurano “sulla parola” le presunte chiacchiere del genetista americano che si sta occupando dell’attentato 2001 alle Torri Gemelle.
Poi, per fortuna, anche Sofri, come tutti gli illuministi, viene salvato dalla scienza. Nello specifico la genetica forense, e con lui anche un processo che sembrava compromesso allo stesso coscienzioso presidente della corte Pellino, che difatti “come se avocasse a sé la riapertura integrale dell’inchiesta nel vivo del dibattito” cerca nuove prove, e incontra la genetica. E Sofri descrive il risolutivo irrompere della genetica nel processo con la soddisfazione di chi ne ha viste tante “nel mondo giudiziario i periti, gli esperti, i consulenti scientifici, c’erano da tanto tempo, ma relegati nel retrobottega: il banco toccava ai grandi retori e ai piccoli tromboni. Guardavo il processo, e da un momento in poi pensavo a come fosse destinata a cambiare l’avvocatura, e anche la magistratura. Dal momento della perizia sul DNA. Tutto è continuato come se fosse un processo all’antica, come se la quantità di episodi e circostanze sulle quali ci si confrontava dovesse contare ugualmente sul risultato. Ma era come quando l’orchestra continua a suonare, e già le scialuppe sono in acqua”.
La nave, ovviamente, è quella della giustizia italiana, che in questo processo, grazie ad uomini coscienziosi, preparati e tenaci, riesce ad assicurare il buon esito finale. Ma che ha evidentemente bisogno di mezzi e personale adeguato, più che di riforme affrettate.