L’orso rinnegato
Il Trentino secondo la Giunta Rossi: gli orsi nei recinti, le motoslitte nei Parchi. L’ambiente trentino e il suo redditizio buon nome svenduti per ignoranza.
Agosto di quest’anno. Mi trovo in Alto Adige per una breve vacanza. Percorro una strada in una delle tante vallette secondarie. Mentre mi organizzo per l’escursione, noto un piccolo cartello con degli avvisi. Impossibile non vederlo, si trova proprio all’imbocco del ponte in legno da cui poi partono alcuni sentieri. Quello che mi colpisce non è tanto il suo contenuto, ma il fatto che non mi trovo all’ingresso di un parco o di una riserva naturale, ma appunto in fondo ad una delle tante vallette secondarie, peraltro di impareggiabile bellezza. Evidentemente qualcuno - l’amministrazione locale? I proprietari delle malghe e dei pascoli? Una qualche associazione? - si era premurato di far arrivare ai turisti un messaggio con alcune norme basilari di comportamento. Lo stile adottato per il testo era in linea con l’ambiente: naturale, semplice e accattivante. Nessun divieto di, vietato a, ché tanto se poi, come spesso accade, non c’è nessuno a vegliare facendo applicare le regole, la regola diventa spesso il chissenefrega.
Qualche lettore potrebbe osservare, leggendo gli inviti (vedi foto) rivolti attraverso il cartello, che si tratta di cose talmente ovvie che non è necessario perdere tempo a ricordarle. Non è così. La realtà della montagna è talmente cambiata che anche gli inviti più ovvi sono necessari.
Una volta forse era diverso: ad andarci erano in pochi, chi ci andava lo faceva per antica consuetudine e conosceva le “buone usanze”, i più piccoli avevano nonni e genitori in grado di trasmettere loro i giusti comportamenti nell’andare per boschi, prati e monti. Oggi - è superfluo dirlo - sia la quantità che la qualità (intesa come esperienza e conoscenza) dei fruitori di tali luoghi sono cambiate, l’una crescendo, l’altra diminuendo, in modo quasi esponenziale. Cercare di arginare questa crescita è non solo antistorico e, almeno dal punto di vista turistico, anche poco positivo: probabilmente è anche impossibile. Il turismo quindi non va fermato; va però governato. E sia la formazione del turista che l’informazione diventano importanti. Un cartello non può evitare tutti i guasti che turisti maleducati possono infliggere all’ambiente naturale, ma di certo aiuta.
Da noi invece l’assenza o la scarsità di avvisi è quasi la norma e quando ci sono, sono spesso vecchi e malandati, anche nei biotopi, nelle aree naturali e addirittura nei parchi. E se mancano i cartelli, immaginarsi il resto! Chi ha avuto occasione di visitare i parchi del Nord America (ma ormai questo vale anche per tante altre zone del mondo, inclusi molti parchi africani) sa quanta attenzione sia rivolta a garantire che il visitatore sia informato sia sui pericoli, sia su quello che si può o non si può fare. Insomma sempre meno turismo “fai da te” e sempre più eco-sostenibile e correttamente informato. “Ho vissuto 5 anni nelle Montagne Rocciose in Canada - ci dice Claudio Celada, ricercatore e direttore del settore conservazione della LIPU - dove alla coesistenza con l’orso i turisti venivano preparati fin dalle regole nei campeggi. Dove si veniva istruiti a rispettare alcuni principi, tra cui fondamentale non abituare gli animali alla nostra presenza: da una parte l’orso non deve individuare l’uomo come fonte di approvvigionamento (cibo dai turisti, rifiuti) dall’altra l’uomo non deve approcciarsi troppo, per curiosità, scattare foto ecc”. Anche il Trentino va in questa direzione?
Non pare proprio e anzi sembra che l’indirizzo delle nostre menti deputate a sviluppare il turismo sia rivolto soprattutto alle attività fracassone e poco rispettose del delicato ambiente naturale. Attività per le quali non è certo l’informazione a rivestire una qualche importanza; semmai, per favorirle, è meglio allentare le regole. Le richieste in tal senso, in parte già accettate, sono in preoccupante aumento. Se ci basiamo su quanto avvenuto in questo primo periodo della nuova legislatura, all’assessore competente, più che chiedere di correggere il tiro, dovremmo chiedere le dimissioni. Anche in fretta, o i danni saranno davvero tanti (vedi “L’assessore del futuro”).
La pessima gestione del recente caso “Daniza” è esemplare di un modo di operare dove chi comanda non sa governare gli eventi, finendo con l’ottenere l’opposto di quanto si era prefisso, ossia danneggiare il turismo. Non c’è dubbio che a livello nazionale (ma anche internazionale) il Trentino ne è uscito massacrato. Purtroppo le cose andranno ancora peggio se, per la testardaggine con cui i responsabili politici insistono nel non voler ritirare l’ordinanza, porteranno alla cattura di Daniza. Solo degli sprovveduti possono aver consigliato la cattura di una mamma orsa con due piccoli al primo anno, quando etologia e convenienza politica avrebbero dovuto suggerire di rimandare ogni azione fino al termine del prossimo svernamento. Nel caso di cattura, ora, sia che i due orsetti siano messi in cattività assieme alla mamma, sia che siano abbandonati a se stessi (con gravissimi rischi per la loro sopravvivenza), il tam tam mediatico riprenderà con più virulenza e il problema di immagine per il Trentino non potrà che peggiorare. Ma come possiamo essere arrivati a questa situazione, quando invece il progetto di ripopolamento della popolazione ursina, in un’ottica tecnica, è considerato da tutti un progetto di successo (e la cosa non era scontata)?
Informazione (quasi) zero
La domanda ci riporta alla storia del cartello iniziale. Informazione e formazione. Da questo punto di vista siamo di fronte a un esempio eccezionale di “quello che dovete fare se volete far fallire il vostro progetto”. Un caso di scuola da utilizzare nelle lezioni sui temi della conservazione. Da anni è risaputa l’importanza che riveste, per il successo di qualsiasi progetto ambientale, “l’accettazione e la comprensione da parte della popolazione locale”, come evidenziato anche nelle direttive del progetto Life Ursus. Invece si è fatto poco o nulla, impiegando risorse irrisorie. Nei primi anni si sarebbero dovute privilegiare la attività volte a informare correttamente, anche a costo di rallentare l’avvio del ripopolamento. Negli anni successivi, ipotizzando pari a cento le risorse a disposizione, un corretto rapporto tra spese per l’informazione/formazione e tutte le altre spese sarebbe dovuto essere 50-50. Ritengo che la percentuale dedicata al primo punto sia stata invece sempre di pochi punti percentuali, sicuramente non ha mai superato il 10%. E non dimentichiamo che questa linea deve continuare nel tempo, non c’è mai un momento in cui informare e formare non è più necessario.
Poniamoci qualche domanda. Quanti cartelli che informano sulla possibile presenza dell’orso vediamo girando il Trentino? I turisti che arrivano negli alberghi ricevono del materiale informativo? Nelle scuole cosa si fa per abituare i ragazzi all’idea che la convivenza con l’orso è possibile? E questi sono solo alcuni degli esempi delle azioni da attuare per istruire, educare, informare, formare. Con un’azione formativa rivolta anche a coloro che svolgono attività lavorative in aree boschive o di montagna, ai gestori di alberghi, rifugi, malghe aperte al pubblico, alle guide e operatori turistici. E invece si è fatto pochissimo: sporadici incontri nelle valli, un manualetto che i più volonterosi possono ritirare presso gli uffici competenti, un report annuale rivolto agli addetti ai lavori. E così il progetto Life Ursus è divenuto, a livello locale, fonte di problemi anziché una grande occasione per una crescita nella cultura ambientale e per una inversione di rotta nei nostri rapporti con l’ambiente naturale e i suoi abitanti: una rotta che da generazioni è in collisione con tutto quello che della natura è espressione.
Il concetto di biodiversità è diventato comune ai più in anni abbastanza recenti e forse rimane per molti ancora un po’ misterioso (vedi “A cosa serve l’orso?”). Però, una volta capito che essa è l’indice fondamentale per stabilire se l’ambiente naturale in cui viviamo è sano e che senza di essa è la stessa umanità ad essere a rischio, bisogna essere coerenti e accettarne le conseguenze. È facile apprezzare la biodiversità quando ci viene offerta, in altri e lontani contesti, durante i nostri viaggi. È facile farsi coinvolgere, sottoscrivendo le campagne lanciate nel web, dai progetti per la salvaguardia degli animali a rischio, siano essi le tigri dell’India, gli elefanti dell’Africa o il puma del non-più-tanto-selvaggio Ovest americano. È invece più complicato accettare l’orso nel nostro Trentino, cadendo nella nota sindrome Nimby (Not in my backyard) per cui ci va bene che le cose, utili e necessarie ma un po’ scomode, vengano fatte, ma in altri posti lontani da noi. Troppo comodo.
“La presenza dell’orso è decisamente importante per restituire all’ambiente alpino una connotazione di integrità. - afferma Celada - Dobbiamo decidere cosa vogliamo, se un ambiente sterile, senza vita o ricco di biodiversità. Poi, certo, c’è pure un ritorno economico, anche perché il valore simbolico dell’orso è rilevante, e conseguentemente il suo appeal mediatico. Ma è sbagliato ridurre a questo la presenza dell’orso. La sopravvivenza della biodiversità va molto al di là dei vantaggi economici.”
W l’orso. Ma solo nei dépliant.
D’altra parte, l’orso è stato finora anche un affare, un ottimo investimento di immagine: per il turismo trentino, ma non solo, per tutta la costruenda filiera dell’industria ecosostenibile. E difatti gli organi da cui dipende il turismo non hanno perso occasione - giustamente - di utilizzare la presenza dell’orso in tutte le pubblicazioni, poster, video, con l’evidente impegno a trasmettere l’idea di un territorio così naturale e incontaminato che vi si trova perfino l’orso. Per parte sua spesso l’orso ha dato una mano, mettendosi in posa vicino a qualche strada di montagna, o sotto qualche impianto di risalita o in prossimità di qualche rifugio, sempre ben in vista dei fortunati turisti che lo hanno immortalato diffondendone le immagini. Così facendo, l’orso, nella sua veste di orso Yoghi, ha restituito per cento o per mille i soldi spesi per consentirgli di vivere in Trentino.
Ma a fronte di questi vantaggi e di questa visione di turismo naturalista, alcuni operatori turistici e alcuni assessori sembrano attratti da un’altra strada: quella di un turismo consumistico, spesso indegno dell’ambiente che lo ospita e irrispettoso dei valori che dovrebbero caratterizzare chi frequenta boschi e montagne. L’idea di un Trentino “a natura controllata”, aperto a ogni genere di attività, meglio se rumorosa, può essere pagante nel brevissimo periodo, ma strategicamente è un errore imperdonabile. Perché moltissime di queste attività sono riproducibili, spesso senza grandi investimenti, in altri luoghi, anche se meno pregiati; perché sono le zone a maggior valenza ambientale le più richieste da una sempre più vasta popolazione stanca di ambienti urbanizzati e di alti tassi di inquinamento; e la rinaturalizzazione di un ambiente compromesso dagli interventi umani è costosissima, quando non impossibile. Soprattutto, il Trentino gode di buona fama nazionale, di ambiente integro e serietà della popolazione: si vuole in un colpo solo distruggere questo patrimonio?
In tutta questa vicenda, è impossibile non vedere le responsabilità dei politici, che possono essere fatti rientrare quasi tutti in due grandi categorie. I “Ponzio Pilato” e gli “scalda cola”. A capeggiare i primi, l’ex governatore Dellai, che non ha mai nascosto la sua posizione: il progetto lui non l’aveva voluto, se l’era trovato bello e confezionato. Non potendo dire di più, ossia che se fosse dipeso da lui lo avrebbe eliminato volentieri, ha però agito di conseguenza, con azioni, o meglio con non-azioni che hanno minato il successo del progetto, frustrando l’encomiabile lavoro dei poveri operatori, lasciati sul campo senza supporto politico. Assieme a Dellai, in questo gruppo vanno inseriti politici di molti schieramenti a lui alleati o vicini, PD abbondantemente incluso. Nel secondo gruppo ha spadroneggiato la Lega, sempre bravissima a seguire i malumori della popolazione, assecondandone le pulsioni peggiori, ingigantendole e raccogliendo così facili voti.
Gli atteggiamenti di entrambi i gruppi hanno danneggiato il progetto, che si è trovato sostanzialmente abbandonato a se stesso. E così le azioni dei vari organismi ed enti provinciali hanno assunto caratteristiche schizofreniche. Da una parte l’orso veniva usato come testimonial della naturalità del Trentino, dall’altra altri organi della medesima Provincia, tenevano una linea opposta: meno si parlava dell’orso, meglio era.
Basso è stato anche il profilo del Muse, e assordante il suo silenzio sul caso Daniza. Non sono state chiarite alla popolazione alcune nozioni basilari, come il fatto che l’orso a volte si comporta sì da orso Yoghi, ma che solitamente è riservato e non gradisce essere disturbato; che dell’uomo ha timore, visto che proprio l’uomo l’ha portato vicino all’estinzione, ma che vi sono comunque precisi comportamenti da tenere per non provocare le sue reazioni; che con lui è possibile convivere, in fondo lo abbiamo sempre fatto dalle nostre parti, ma che ciò comporta qualche limitazione (utile ad esempio sarebbe l’uso nei boschi dei campanellini da orso).
In conclusione, se il governatore Rossi vuole dimostrare di credere in un progetto per lo sviluppo del turismo trentino diverso da quello che il suo assessore Dallapiccola sembra assecondare, dovrà chiedere un cambio di rotta al medesimo (in caso di diniego le dimissioni dell’assessore sono la logica alternativa).
Se Rossi vuole poi dimostrare di credere nella continuazione del progetto iniziato con Life Ursus deve lui stesso cambiare atteggiamento.
Se alle critiche che gli sono giunte dall’esterno, in conseguenza delle pessime decisioni prese nel caso Daniza, si limita a rispondere che “se si parla di reintroduzioni, non dobbiamo imparare niente da nessuno”, non fa bella figura lui e non la fa fare a tutti noi.
40 orsi sono troppi?
A Osvaldo Negra, ricercatore al Muse e presidente del WWF regionale, chiediamo che senso scientifico abbia l’affermazione, spesso ripetuta, per cui in Trentino 40 sono troppi.
“La risposta ce la dà l’ecologia: se gli orsi non sono andati incontro a un alto livello di mortalità, se non vanno alla ricerca di cibo nelle discariche o dal macellaio, ma, al contrario, si sono sviluppati e riprodotti, significa che il Trentino è in grado di ospitarli”.
Qual è la compatibilità uomo-orso?
“La discussione di questi giorni è dovuta più a una paura psicologica che reale. L’orso crea soprattutto fastidio in quanto pone una limitazione alle attività quotidiane prima svolte senza precauzioni. Gli allevatori ora devono pensare a fare recinti, a utilizzare un maggior numero di cani ecc. Ciò sicuramente costa fatica, non tanto fisica quanto piuttosto culturale. In quanto ai turisti, non c’è pericolo, purchè si mantengano dei comportamenti idonei alla situazione: basta attaccarsi un campanello durante la passeggiata per farlo fuggire”.
Eppure c’è stato il caso di Daniele Maturi, che lamenta un’aggressione.
“Un caso su cui andrebbe fatta chiarezza. Sembra strano arrivare a meno di 10 metri dall’orso in maniera involontaria. O si è molto sbadati oppure c’era la volontà di vedere l’orso da vicino”.
E qual è il valore turistico, positivo o negativo?
“Positivo, ho ricevuto molte mail da turisti e persone residenti nelle regioni limitrofe al Trentino che si definiscono pro-orso. La presenza di questo carnivoro sul nostro territorio è e deve essere considerata un privilegio: non solo per l’immagine naturalistica che ne acquisisce la nostra regione ma anche e soprattutto come valore ecologico di biodiversità”.
L’introduzione dell’orso nelle Alpi fa parte di un progetto dell’UE per la tutela degli animali e della biodiversità. L’UE ha scelto il Trentino come luogo del progetto in quanto è l’ultimo luogo dove sono stati avvistati gli orsi prima della loro scomparsa. Perciò, la Provincia è tenuta a cercare di limitare e risarcire i danni, rifondendo gli allevatori per i capi predati. Non solo, la Pat dovrebbe mantenere un ambiente adatto alla presenza di animali selvatici.
“È agghiacciante l’utilizzo di mezzi a motore nei parchi naturalistici, sempre più incentivata. Purtroppo assistiamo a un impoverimento della biodiversità, la cui tutela in Italia è molto spesso solo formale. Il concetto di Area Protetta è visto come interessante da un punto di vista promozionale invece che come luogo da preservare, sul cui ecosistema non si dovrebbe intervenire”.
(a cura di Luigi Montibeller)
Dovevamo pensarci trent’anni fa
Il prof Franco Pedrotti, di Trento, “botanico, cartografo e naturalista” come recita Wikipedia, nonché ordinario all’università di Camerino, aveva deciso di non intervenire sulla questione, ma avendo apprezzato alcuni articoli di QT riguardanti il Muse e il suo silenzio su alcune tematiche ambientali, ha acconsentito a una breve intervista.
“La questione dell’orso poteva essere risolta positivamente 30 anni fa quando fu istituito il Parco Adamello Brenta. Allora c’erano ancora alcuni orsi spontanei, ma la realizzazione vera e propria del Parco ha subito dei ritardi così questo animale, nel frattempo, è pressoché scomparso, anche perché allora gli orsi li si uccideva, e si sono volute fare delle strade forestali proprio dove loro facevano le tane. In quegli anni si è fatto poco, anzi si è agito contro. Se si stava attenti allora, forse adesso non sarebbe stato necessario re-introdurlo”.
Molti sostengono l’importanza dell’educazione al rapporto con l’orso.
“Il fatto che gli orsi siano sempre vissuti qui fa capire che la convivenza non dovrebbe essere un problema. Quando sono andato in America, in un parco nazionale nel Montana, mi hanno consegnato dei campanelli per far fuggire l’orso; oppure, quando si è in gruppo, basta parlare a voce alta”.
E quale è il significato e valore ambientale dell’orso?
“30 anni fa la presenza dell’orso significava la presenza di un luogo selvaggio come la Val di Genova o la Val di Tovel. Oggi non è più così, l’ambiente è stato troppo antropizzato. Per tornare a quel significato, bisognerebbe poter disporre nuovamente di luoghi selvaggi, come in tutto il mondo succede. Questo è appunto il senso dei Parchi, a iniziare dall’Adamello-Brenta. Certo, quando poi nel Piano del parco si prevede di accedere alle sue strade con motoslitte e altri mezzi cingolati per il foraggiamento della selvaggina e per favorire l’attività venatoria, siamo al controsenso: semplicemente inaccettabile! È una questione di scelta, e il Trentino deve appunto scegliere ciò che vuole essere”.
(a cura di Luigi Montibeller)
L’assessore del futuro
Le scelte e le azioni dell’assessore alla caccia e al turismo Michele Dallapiccola in questi pochi mesi stanno non solo incidendo in modo pesante sulla tutela del territorio, ma anche evidenziando una visione devastante del turismo e più in generale del Trentino.
Il primo discutibile provvedimento è stato quello di liberalizzare le motoslitte ad uso dei rifugi, nel senso che, sia di giorno che di notte, si possono trasportare cose e persone al rifugio per cene e libagioni. Questi turisti poi scenderanno a notte inoltrata ben calibrati con slitte e slittini fino a valle. A nulla hanno portato gli incidenti mortali già successi: la vita umana è sacra se lontanissimamente minacciata da un animale, sacrificabile invece se stroncata dal business dello sballo. Sull’onda di questa delibera anche il Parco Adamello Brenta si è vista approvare dalla giunta provinciale una modifica al Piano parco, con l’apertura al traffico delle motoslitte, per la caccia (!) e il (discutibilissimo) foraggiamento degli animali selvatici, ancora ad opera dei cacciatori, con intuibili finalità. Altra perla, l’apertura delle strade forestali per 90 giorni per poter acquistare i prodotti nelle malghe; una scusa per liberalizzare di fatto il traffico motorizzato sulla montagna, con grave disturbo per i turisti camminatori, oltre che per la fauna.
Dulcis in fundo, l’apertura di Dallapiccola alle richieste degli amanti del motocross ed enduro per l’utilizzo di alcune strade forestali e sentieri SAT dismessi.
Se questa è l’impostazione futura del turismo trentino, non lamentiamoci poi se il turismo di qualità va da un’altra parte. Quale l’alternativa? Iniziamo con le dimissioni di Dallapiccola...
Sergio Merz
A cosa serve l’orso?
Con la firma nel 1992 della Convenzione di Rio, venne sancito, fra l’altro, il valore della biodiversità, riconosciuto com e bene fondamentale per il benessere presente e futuro dell’umanità. Semplificando, possiamo affermare che la biodiversità comprende tutti gli organismi viventi presenti sul nostro pianeta, e suoi componenti principali sono i geni, le specie, gli habitat e gli ecosistemi. La conservazione della biodiversità è pertanto fondamentale per il benessere umano e per la fornitura sostenibile delle risorse naturali. La perdita di biodiversità degrada il patrimonio naturale portando a un deterioramento dei “servizi ecosistemici” compromettendo il benessere umano.
Si possono infatti distinguere almeno quattro categorie di servizi ecosistemici di fondamentale importanza per il benessere umano:
- Servizi di approvvigionamento, che forniscono le risorse che vengono sfruttate direttamente dall’uomo, come alimenti, fibre, acqua, materie prime, medicine;
- Servizi di supporto, che comprendono i processi che consentono lo sfruttamento delle risorse naturali, quali la formazione del suolo, la fotosintesi, l’impollinazione;
- Servizi di regolazione, l’insieme dei meccanismi naturali responsabili della regolazione del clima, della circolazione delle sostanze nutritive, della regolazione dei parassiti, della prevenzione dalle inondazioni ecc.;
- Servizi culturali, i benefici per le persone derivanti dall’ambiente naturale per fini ricreativi, culturali e spirituali.
L’Europa ha compreso, prima di altri, la necessità di compiere uno sforzo straordinario per la conservazione e certamente un passo importante è rappresentato dalla Direttiva Habitat (del 1992), relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e fauna selvatiche, che, andando a completare le disposizioni della Direttiva Uccelli (del 1979!) istituisce una rete ecologica europea coerente di zone speciali per la conservazione della biodiversità, denominata Rete Natura 2000.
In Europa vivono cinque specie di grandi carnivori: l’orso bruno (Ursus arctos), la lince eurasiatica o europea (Lynx lynx), la lince pardina o iberica (Lynx pardinus), il lupo (Canis lupus) e il ghiottone (Gulo gulo). Nella maggior parte dei paesi europei il loro status di specie prioritaria è garantito dalle direttive che definiscono specifici obiettivi in materia di ripristino e mantenimento dei siti designati e delle specie ad essi associate, al fine di raggiungere uno stato di conservazione favorevole. All’interno di questa cornice si inserisce il progetto di ripopolamento della popolazione di orso delle Alpi, conosciuto come Life Ursus, con il quale si cerca di salvare la specie da estinzione locale attraverso interventi diretti di conservazione.
Nella presentazione del volume “L’impegno del Parco per l’Orso: il Progetto Life Ursus” (Documenti del Parco n°18 - 2010), che, ironia della sorte, riportava in copertina un’immagine del rilascio di Daniza nel Parco Naturale Adamello Brenta, l’allora presidente dott. Antonello Zulberti nella sua presentazione scriveva: “L’impegno del Parco nei confronti dell’ultima popolazione autoctona di orsi delle Alpi italiane altro non è se non il proseguimento di un percorso intrapreso nel momento stesso dell’individuazione dell’area a parco, istituita per tutelare le ultime aree di presenza del plantigrado sulle montagne italiane”. E più avanti l’allora direttore del Parco dott. Claudio Ferrari: “Il Parco è divenuto, anche grazie all’orso, un luogo di promozione di una cultura diversa, in grado di porsi in equilibrio tra l’improrogabile necessità di conservazione della biodiversità e le sacrosante istanze di crescita dei residenti. Un territorio, comunque sia, che oggi è più attrezzato ad accogliere l’arrivo spontaneo di altri grandi carnivori”.
Certamente nel corso degli anni sono stati commessi degli errori nella gestione del progetto, ma i principi ispiratori dell’iniziativa sono sempre validi e attuali: il ripopolamento dell’orso, specie al vertice della catena alimentare, può dare un forte contributo al raggiungimento del traguardo della conservazione ed al blocco definitivo della perdita di biodiversità a livello locale e globale.
In conclusione: cosa serve, quanto vale l’orso? Per rispondere dobbiamo comprendere come la specie faccia parte della diversità biologica che costituisce la ricchezza naturale della Terra e fornisce le basi per la vita e la prosperità di tutta l’umanità. Non sempre a tutto ciò che è molto utile viene attribuito un gran valore (ad esempio, l’acqua) e, viceversa, non tutte le cose che hanno un grande valore sono automaticamente molto utili (si pensi ai diamanti).
Abbiamo ancora difficoltà nell’individuare il “valore della natura”. Proprio questa mancanza di valutazione si sta rivelando una delle cause principali del degrado degli ecosistemi cui assistiamo. Dobbiamo essere in grado di riconoscere il grande valore economico della natura e così comprenderemo anche il grande valore dell’orso bruno.
Vittorio Cavallaro