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I profughi del Sud Sudan

Tra la popolazione scacciata dalla sua terra: dopo il referendum, il paese è indipendente dal Sudan, ma nelle contese terre di confine la vita non c’è più.

Andrea Anselmi

Arop ha già preparato il fuoco e messo una pentola di sorgo sul fuoco quando il sole comincia ad alzarsi. Tira fuori dalla zanzariera sfilacciata la figlia più grande, le affida la cura dei bambini più piccoli e si avvia con sua sorella Akol Chot verso i campi di una terra non sua. Arop Nyalror Kuot si considera sud-sudanese, ha trent’anni, quattro figli e attualmente vive a Agok, non lontano dal fiume Kiir, che da un anno e mezzo segna informalmente una parte di confine tra Sudan e Sud Sudan. Insieme a decine di migliaia di persone Arop era scappata da casa sua la notte tra il 20 e il 21 maggio 2011 quando l’esercito sudanese attaccò via aria e terra il territorio di Abyei svuotandolo quasi completamente della sua popolazione.

Alle soglie della stagione delle piogge, i profughi di Abyei avevano ricevuto accoglienza e supporto materiale dalle comunità locali che abitavano la zona di Agok e con cui condividono l’appartenenza alla stessa etnia, i Dinka Ngok. Fuggita con pochi oggetti, Arop ha avuto la fortuna di ritrovare una sorella più grande sposata da tempo nell’area, e ancora oggi 12 persone, tre adulti e nove bambini, dormono nello stesso tukul (capanna) e condividono la quotidianità, tra gestione della casa e dei figli, lavori nei campi e al mercato.

Avevo incontrato Arop per la prima volta nell’estate del 2011 a Agok mentre stavo organizzando una distribuzione di materiale di prima necessità (zanzariere, coperte, vestiti, teli) per la Croce Rossa Internazionale. Durante l’anno di missione in Sud Sudan l’ho poi rivista altre due volte, l’ultima nel giugno 2012, più di un anno dopo la sua fuga da Abyei.

Una terra contesa in un paese instabile

Il territorio di Abyei, grande quasi come il Trentino-Alto Adige e già teatro di scontri nel 2008, è una delle più importanti zone contese che ancora esistono tra Sudan e Sud Sudan. Dopo più di 30 anni di sanguinosa guerra civile, motivata da diversi media occidentali in maniera sbrigativa e fuorviante come lotta etnica (arabi contro africani) o religiosa (musulmani contro cristiani), i due paesi avevano firmato un accordo di pace (il Comprehensive Peace Agreement) nel 2005. Un referendum era stato organizzato a inizio gennaio 2011 affinché le popolazioni del Sud Sudan si esprimessero circa la volontà di separarsi da Khartoum. Il 98,8% della popolazione si dichiarò a favore, ma l’area di Abyei era rimasta in sospeso, in attesa di un referendum separato che, tuttavia, è stato rimandato a data da destinarsi. Lungo tutto il confine tra i due paesi rimangono larghi tratti di territorio non definito. Questa incertezza spinge entrambi gli eserciti a continuare gli scontri, spesso per guadagnare poche decine di chilometri, ma soprattutto per avere accesso a aree ricche di risorse petrolifere e minerarie (ferro, rame, zinco).

Il Sud Sudan, raggiunta l’indipendenza il 9 luglio 2011, deve affrontare una serie di sfide importanti. In primis, la sicurezza e la stabilità del paese sono messe a dura prova da conflitti a più livelli: conflitto armato internazionale con il Sudan, presenza di gruppi ribelli che puntano a conquistare aree del paese e a rovesciare il governo di Juba, violenze tribali per l’accesso a aree di pascolo o finalizzate al furto di bestiame. Da un punto di vista socio-economico, inoltre, gli indici di sviluppo umano sono preoccupanti. Secondo stime del 2011, sugli 8,2 milioni di abitanti complessivi, l’analfabetismo supera l’80%, la mortalità infantile raggiunge il 10,2% e più di metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e in stato di insicurezza alimentare a causa di un costante deficit di produzione agricola. Da quasi un anno le tensioni al confine comportano anche il blocco della produzione di petrolio, che vale il 98% delle risorse statali; con una tale perdita di risorse, lo stato prevede una riduzione del 60% del budget 2013 rispetto all’anno in corso. I margini di miglioramento a livello di infrastrutture, educazione, salute sono dunque estremamente limitati.

Condizioni di vita

Quando dovettero fuggire nel 2011 i profughi di Abyei avevano appena cominciato a coltivare a ridosso della stagione delle piogge. La fuga precipitosa, l’abbandono di campi e di gran parte del bestiame tolsero loro qualsiasi mezzo di sussistenza. Gli aiuti umanitari internazionali furono importanti per sopravvivere, ma sicuramente non per ricominciare a gestire la loro vita in maniera autonoma. Agricoltura e allevamento sono i pilastri dell’economia sud-sudanese e le attività si svolgono scandite dal ritmo del sole. Le temperature elevate spingono le persone a sfruttare il più possibile le prime ore della giornata, più fresche, e il periodo prima del tramonto che segna la fine della giornata in assenza di elettricità. Tutti nella famiglia hanno un compito. Alla fine della stagione delle piogge comincia la raccolta di cereali come sorgo e mais. Nelle ore libere dai lavori nei campi, oltre a gestire figli e casa, Arop si occupa di andare a prendere acqua al pozzo o al fiume, di raccogliere legna e di produrre carbone vegetale da vendere ai mercati più vicini. Durante le conversazioni con lei e altri profughi, la pesca era stata inviduata come attività fondamentale. È sulla base di questi dialoghi che eravamo riusciti a convincere la dirigenza della Croce Rossa a fornire un’attrezzatura adeguata. Ora, il marito di Arop, Deng Kuol, parte ogni giorno verso il fiume Kiir gettando a più riprese le reti da pesca. Il pesce è una risorsa nutritiva complementare in un’alimentazione scarsa di vitamine e un ottimo bene di scambio per ottenere pane, riso, ma anche medicine e foglie di the. Nella fuga Arop e Deng Kuol erano riusciti a portare con sé solo qualche mucca e capra. Sta ai figli più grandi occuparsi del bestiame, elemento fondante della cultura delle maggior parte delle etnie presenti nel paese.

Un ritorno incerto

“Per me l’importante è tornare a casa mia, anche dovessi ricominciare tutto da capo” mi dice Arop l’ultima volta che la vedo nel giugno scorso. Rispetto ad altre famiglie, Arop e Akol Chot sono riuscite a trovare un fragile equilibrio condividendo capanna e lavori, situazione che tuttavia è difficilmente sostenibile sul lungo periodo. Il chiodo fisso di tutti i profughi rimane quindi il ritorno “a casa”. Per il momento solo poche centinaia di famiglie hanno deciso di prendere la strada del ritorno, mentre la maggior parte della gente aspetta che la situazione politica e militare si stabilizzi. A nord del fiume Kiir la presenza di soldati sudanesi, la periodica discesa di popolazioni nomadi (da anni armate), la possibile presenza di mine poste sui terreni durante gli scontri o sganciate dagli aerei rappresentano degli ostacoli considerevoli. Chi desidera tornare sa inoltre di dover ricominciare, ancora una volta, tutto da zero. Le autorità sud-sudanesi spingono i profughi di Abyei a ritornare nelle loro aree più a nord, approfittando anche del fatto che la stagione secca (tra novembre e aprile) è la migliore per raccogliere erba secca per ricostruire i tukul. Arop rimane comunque dubbiosa, il destino dei figli rimane la sua priorità e non nasconde le sue preoccupazioni. Nell’ipotesi di un ritorno, alle questioni relative alla sicurezza si aggiungono fattori ancora più concreti, quali il cibo (niente terre coltivate, né mercati in cui comprare beni di prima necessità) e l’accesso a strutture sanitarie. Rimanere dalla sorella appare sempre più impegnativo a causa delle limitate risorse a disposizione e della mancanza di strutture educative. L’idea di spostarsi ulteriormente verso città più grandi significherebbe allontanarsi ulteriormente da Abyei, affrontare un viaggio di giorni o settimane prevalentemente a piedi e dover ricominciare una vita senza terre, animali e lavoro.

Migliaia di famiglie provenienti da Abyei sono concretamente da più di un anno e mezzo in una situazione di stallo: uno stallo condizionato in maniera drammatica da quello politico, economico e militare del paese.

La Croce Rossa in Sud Sudan

La Croce Rossa Internazionale è presente in Sud Sudan dagli anni ‘80, fornendo sostegno alle popolazioni colpite dal conflitto. Basata nelle tre città principali (Juba, Malakal, Wau), lavora nelle zone di frontiera. Dal punto di vista medico, in Sud Sudan esiste un ospedale ortopedico per vittime di guerra (protesi) e un’équipe medica pronta a spostarsi sul territorio seguendo gli scontri. Sostegni di tipo materiale come cibo o beni di prima necessità (coperte, teli di plastica, vestiti) vengono distribuiti in situazioni di emergenza, mentre in un secondo momento si cerca di fornire attrezzi da pesca, semi e utensili per colitvare, assieme a servizi veterinari per coloro che nella fuga sono riusciti a salvare parte del bestiame. La Croce Rossa si occupa inoltre di migliorare l’accesso all’acqua attraverso la riparazione di pozzi o pompe idriche. Un lavoro di fondo cruciale è svolto nel mantenere un contatto costante con le autorità, l’esercito, i gruppi ribelli e cercare di diffondere i principi base del diritto umanitario internazionale (o “Regole di guerra”), che definisce quello che si puo’ fare, o non fare, in una situazione di conflitto secondo i dettami delle Convenzioni di Ginevra. Tutte le attività sono svolte con l’ausilio di personale locale e il supporto della “Croce Rossa Sud Sudanese” (ex “Mezzaluna Rossa”).