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Un dialogo difficile

La Turchia sotto Erdogan: uno sviluppo straordinario, con metà della popolazione che vive nelle città. Un modo di vivere “laico”, ma col peso di una religione che non prevede la separazione tra sè e lo stato. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Paolo Bizzeti, Barbara Bertoncin
Tayyip Erdo?an

Sono arrivato in Turchia la prima volta nel 1978 con un gruppo di compagni dell’Università di Bologna. Avevamo scelto quella destinazione perché era il più vicino dei paesi lontani o il più lontano dei paesi vicini.

Ne rimasi subito affascinato: la Turchia a quel tempo era un mondo completamente “altro”. In seguito ho continuato ad andarci regolarmente per visitare luoghi cristiani o semplicemente per vacanza. Quindi è un paese che frequento da una quarantina d’anni, di cui ho seguito un’evoluzione segnata da varie fasi che possiamo sintetizzare così: c’è stata la fase dei golpe militari, spesso appoggiati dall’estero (dagli Stati Uniti in modo particolare); poi la stagione del ritorno alla democrazia, ma ancora sotto l’egida di persone messe lì da potenze straniere; e infine l’ultima fase, iniziata quasi vent’anni fa, con l’ascesa di Erdogan e dell’Akp. In Europa si ripete spesso: “Prima c’era una cultura laica adesso c’è una cultura pesantemente influenzata dalla religione”, quasi si rimpiangessero i militari al potere. Si tratta di una deformazione storica. Nel periodo dei golpe, c’era una lobby al potere che si occupava pressoché esclusivamente dei propri interessi; e poi il cosiddetto pensiero laico era in realtà un laicismo estremo, dove anche la libertà religiosa veniva condizionata.

È importante ricordare quegli anni, perché altrimenti si fatica a capire l’ascesa di Erdogan e del suo partito. In un primo tempo, Erdogan aveva messo in piedi un partito dichiaratamente islamico, a cui fu impedito di concorrere politicamente; in seguito ha ripresentato il suo progetto sotto un’altra veste, coniugando la tradizione islamica col liberismo economico, ma la matrice islamica è sempre rimasta

Lo sviluppo

Da quando l’Akp ha preso in mano il potere, il reddito pro capite dei Turchi si è moltiplicato per quattro; siamo passati da 2.500 a quasi 10.000 dollari pro capite; inoltre ci sono state moltissime opere pubbliche: strade, autostrade, ospedali, aeroporti, eccetera. C’è stata anche una liberalizzazione dell’import-export. Un tempo in Turchia era difficile trovare prodotti tecnologici occidentali, oggi arriva tutto. Parliamo quindi di una crescita spettacolare, che ha portato anche a un processo di urbanizzazione estremo. In pochi anni gran parte della popolazione si è spostata da un contesto rurale a uno cittadino, un fenomeno analogo a quello vissuto dall’Italia negli anni ‘60. Oggi abbiamo città come Istanbul con 18 milioni di abitanti, Ankara con 7 milioni, Smirne con 5, Adana con 2… Quasi la metà della popolazione turca ormai vive in poche città.

È dunque innegabile che il regime di Erdogan abbia portato a uno sviluppo molto forte: ma certo non sono mancati e non mancano tanti punti oscuri; ad esempio, non è cambiata di molto la politica verso le minoranze: non solo i cristiani o i cattolici latini, ma un po’ tutte le minoranze non hanno trovato un adeguato riconoscimento.

Il disastro delle guerre del Golfo

L’impatto delle due guerre del Golfo è stato devastante. In un momento in cui il Medio Oriente si stava aprendo all’Occidente, nutrendo una grande ammirazione per l’Europa e anche per l’America, soprattutto da parte dei giovani, è arrivata la doccia fredda della prima guerra del Golfo, ma soprattutto della seconda, un atto sciagurato che ha spezzato sul nascere delle possibilità interessanti, in tutto il Medio Oriente e anche in Turchia.

La Turchia è membro della Nato, il partner privilegiato per la politica strategica degli Stati Uniti nella regione. Vedere come gli Americani sono intervenuti in Iraq è stato uno shock, anche per la loro incapacità di gestire il dopoguerra e per il flusso dei rifugiati provocato: in Turchia sono arrivati mezzo milione di irakeni. Mentre la prima guerra del Golfo era solamente una faccenda di petrolio, di interessi geopolitici, la seconda è stata connotata anche religiosamente. Bush junior apparteneva alla chiesa Metodista dei Rinati, che concepiva questa guerra come una crociata. Al seguito delle truppe americane arrivarono centinaia di missionari di questa chiesa, convinti che i cristiani locali fossero troppo arrendevoli nei confronti dell’Islam. Di qui l’idea di evangelizzare l’Irak, con uno stile da colonialismo dei tempi passati. Questo movimento non solo non ha avuto alcun successo (dopo poco tutti i missionari sono tornati a casa) ma ha fatto tornare a galla il fantasma delle crociate.

Tutto ciò ha influito anche nei rapporti con l’Europa, anche perché quest’ultima si era schierata, chi più chi meno, a fianco di Bush junior.

Il processo di annessione della Turchia all’Ue ha avuto anch’esso fasi alterne. Si è passati da entusiasmi e aperture sconsiderate da parte dell’Europa, perché c’era interesse a conquistare un nuovo mercato e a delocalizzare una serie di produzioni, alla chiusura attuale. Anche il secondo governo Berlusconi, con l’allora ministro degli esteri Fini, era per aprire le porte alla Turchia. Ma il problema è complesso: la Turchia non è un paese di matrice europea, non è un paese di matrice nemmeno ellenistica per certi aspetti, perché l’impero bizantino era sì di matrice ellenistica, ma nella traiettoria storica della cultura turca non è rimasto l’approccio critico, filosofico, di quella cultura. Pensare quindi che un paese come la Turchia potesse entrare tout court in Europa è stata un’ingenuità, dovuta a ignoranza da parte dell’Europa, a cui faceva da pendant il desiderio della Turchia di entrare per motivi soprattutto di interesse economico.

Sul versante della Turchia, in seguito, c’è stata l’apertura di nuovi fronti: la Russia, le monarchie del Golfo, le nuove repubbliche a est del Caspio, ricche di petrolio e interessate a incrementare i rapporti commerciali e turistici con la Turchia. Il presidente Erdogan perciò ha buon gioco nel dire: “Se non ci volete, abbiamo anche altri sbocchi, altre possibilità”.

Laici o secolari?

La Turchia da una parte è un paese che ha ancora una forte impronta laica, agnostica. In questo senso è molto secolarizzata. D’altra parte, resta anzitutto un paese musulmano e quasi tutti accettano di scrivere sulla carta di identità “musulmano”, ma con tante sottodivisioni. In Turchia, a non essere riconosciuti ufficialmente, non sono solo i cattolici, ma anche gli aleviti, che non sono sciiti e che contano oltre 15 milioni di fedeli. Poi c’è tutta la corrente del sufismo e dei grandi saggi. Questa pluralità di anime all’interno dell’Islam è una sua peculiarità; nei paesi del Golfo questa varietà non esiste. Quindi la Turchia è veramente un paese a sé e per questo una serie di problematiche non interessa esclusivamente i cristiani. C’è un problema di libertà religiosa. Il trattato di Losanna del 1923, sottoscritto dalle potenze occidentali, non garantiva propriamente la libertà religiosa come l’intendiamo noi: garantiva la libertà di culto a delle minoranze all’interno dei luoghi deputati. Ma la libertà religiosa è un concetto più ampio, culturale prima ancora che religioso. L’Europa civile permette a chiunque un’ampia possibilità di esprimere le proprie convinzioni religiose, di manifestarle pubblicamente, di farsi conoscere. La libertà religiosa (compresa quella di propagandare la propria religione con scuole confessionali) è per noi uno degli indici di democraticità di un paese, anche se c’è una separazione tra chiesa e stato. In Medio Oriente questa separazione non è mai esistita, neanche nell’impero bizantino cristiano. Quindi il rapporto vita civile-vita religiosa è molto più complesso, perché prevale una visione dell’uomo unitaria.

Purtroppo lo slogan dello scontro di civiltà ha fatto molti adepti dall’una e dall’altra parte, e chiunque propone un incontro di civiltà e di religioni viene visto come ingenuo o pericoloso, perché ognuna delle due parti vede l’altro come un aggressore, come quello che vuole annullare l’identità della controparte. Purtroppo c’è ancora gente che pensa di risolvere i problemi con una guerra, che non ha imparato niente dalla storia, che non si è resa conto che nessuna delle due parti oggi può dire di essere un agglomerato omogeneo. Infatti né l’Occidente è cristiano né il Medio Oriente è musulmano: il fatto religioso è trasversale a ciascuno dei due agglomerati. Si aggiunga il fatto che nel Medio Oriente e anche in Turchia c’è una grande voglia di rivincita, perché nell’ultimo secolo queste popolazioni sono state umiliate. Molte decisioni sono state prese sulle loro teste. Infine non posso non accennare al ruolo negativo che ha svolto il governo di Israele a partire dall’anno 2000, da quando Sharon ha cancellato la politica di Rabin e la linea di una pace seria con i palestinesi. Israele è un fattore di forte destabilizzazione nel Medio Oriente: può permettersi di firmare accordi commerciali o di partnership militare con stati musulmani (l’ha fatto per anni con la Turchia) e al contempo, grazie all’appoggio dell’America, ignorare centinaia di risoluzioni dell’Onu.

I profughi

Bisogna distinguere il popolo turco dal governo. Il popolo turco è stato capace di grande spirito di accoglienza nei confronti di milioni di persone che hanno trovato rifugio nel paese. Quanto al governo, dapprima ha assecondato questa apertura, poi però si è reso conto che tutto questo non poteva essere sostenuto con le sue sole forze e ha intavolato una trattativa con l’Europa. Il problema è nato quando l’Europa, anziché collaborare e monitorare il processo, se n’è lavata le mani, affidando alla Turchia il “lavoro sporco”. Il prezzo più alto di questa operazione è stato pagato dai rifugiati, che sono arrivati in Turchia con l’idea di procedere verso altre destinazioni e invece hanno trovato le porte chiuse. Ci troviamo in una situazione potenzialmente esplosiva che non si può risolvere pagando un governo, bisogna andare alla radice dei problemi.

Ma l’’Europa sostanzialmente sta a guardare, incapace di una politica estera unitaria e di una fermezza nelle posizioni. Si va avanti malamente e in ordine sparso, senza una progettualità, senza affrontare i veri nodi. Nel 2010-2011 si sono appoggiate le primavere arabe perché ormai dittatori come Mubarak, Assad, Gheddafi (sostenuti dall’Occidente) erano diventati impresentabili; poi però non si è stati capaci di fare una politica coerente, al punto che adesso qualcuno ha cominciato a dire che forse era meglio Gheddafi. Una memoria così corta da parte dell’Italia e dell’Europa è spaventosa, perché chi non ha memoria è condannato a ripetere gli errori.

E ormai anche in Occidente assistiamo a un fenomeno già presente in Medio Oriente, cioè gente che vota partiti che proclamano di difendere valori religiosi guidati da gente che non è religiosa. È una contraddizione pesante, trasversale che riguarda noi e loro. È venuto il momento di inventarsi qualcosa di nuovo, mettendosi tutti in discussione, non soltanto i turchi e i musulmani.

* * *

Paolo Bizzeti, nato a Firenze nel 1947, gesuita, si è dedicato per un lungo periodo alla pastorale giovanile e familiare. È fondatore dell’Amo (Amici del Medio Oriente), un gruppo che si interessa alle problematiche religiose medio-orientali. Attualmente è Vicario Apostolico d’Anatolia.