Un eroe civile
Intervista al cuoco albanese che nel 1999 fece esplodere lo scandalo della Missione Arcobaleno. A causa del suo coraggio, oggi Vladimir Duro vive a Trento senza lavoro e senza casa.
Sono pochi ad avere un ricordo nitido della Missione Arcobaleno, l’intervento umanitario che nel 1999 l’Italia attuò in protezione della popolazione kosovara in fuga dalla guerra, e delle enormi polemiche che la circondarono successivamente. All’epoca, tuttavia, lo sgomento fu notevole. Un enorme sforzo collettivo nella raccolta di aiuti umanitari era annegato tra scandali di mala gestione di questi e accuse di corruzione, creando forte scompiglio nell’allora governo D’Alema. Dodici anni dopo, l’inchiesta sulla missione, che aveva portato al rinvio a giudizio di venticinque persone nel 2003, si sta lentamente avviando verso la prescrizione. Infatti, da quando il PM che la portò avanti, Michele Emiliano, si è candidato a sindaco di Bari (carica che tuttora ricopre) proprio per quel centrosinistra sfiorato dalle sue indagini, essa non ha avuto molta fortuna. Rinviata per molteplici motivi, la prima udienza del processo si è tenuta il 9 novembre 2011, solo per produrre un ulteriore rinvio al maggio 2012, quando tutti i reati contestati ai diciassette imputati rimanenti saranno prescritti.
Ma gli avvenimenti legati a questa missione di conseguenze ne hanno avute, eccome, su di una persona che oggi vive a Trento. È Vladimir Duro, 54 anni tra poco, ingegnere chimico albanese, cuoco volontario nel campo profughi della città di Valona nel 1999, oggi cuoco volontario alla mensa per persone in difficoltà del Punto d’Incontro di Trento. Con la differenza che dodici anni fa fu volontario per scelta, mentre oggi vi è costretto per avere in cambio un tetto. Un tetto che non ha più proprio perché ha pagato il coraggio avuto nel fotografare, filmare e denunciare quello che succedeva nel campo di Valona, diventando elemento chiave delle indagini. Incontrandolo, con la sua aria dimessa e rispettosa, non si potrebbe immaginare la storia che sta per raccontare.
Quando ha scelto di venire a vivere in Italia?
“Nel 1989, dopo la caduta del regime comunista in Albania, come molti altri sono venuto in Italia per cercare un futuro. Nonostante la laurea, ho iniziato a fare il lavapiatti a Cefalù, vicino a Palermo. Il cuoco del ristorante, a cui sarò per sempre grato, notò la mia curiosità verso il suo lavoro e decise di insegnarmi tutto del mestiere. Così, dopo sei mesi, lavorando gratis in un albergo in cambio di un corso di cucina, sono diventato cuoco professionista. Ho fatto questo lavoro per sette anni, sempre a Cefalù”.
Com’è maturata la scelta di tornare in Albania come volontario della protezione civile nella missione Arcobaleno?
“Sentivo un debito per quello che l’Italia aveva fatto per me e per il mio popolo. Vedendo le scene della guerra in tv, mi sembrava il modo giusto per dare il mio contributo ad un altro popolo che soffriva. Così, il 12 maggio del ‘99 sono partito per la missione Arcobaleno verso il campo di Valona, dove avrei fatto il cuoco. Fin dall’arrivo al porto di Durazzo ho notato dei contatti tra gli italiani e la mafia albanese, e ho pensato: qui cominciamo male. La mafia albanese si fece pagare per permettere al convoglio di sbarcare e iniziava già a decidere chi comandava nel campo, in un clima di reciprocità con alcuni degli italiani che gestivano la missione”.
Come fa ad avere la certezza di quanto afferma?
“Essendo l’unico albanese della spedizione, ero anche l’interprete ufficiale della Regione Sicilia, presente a tutte le riunioni. Che volessero o non volessero, io sapevo quello che succedeva durante tutta la durata del campo. Poi, molte cose accadevano alla luce del sole. Quando arrivava un container da 5 tonnellate, veniva svuotato in venti minuti, e solo un quarto della merce rimaneva, il resto era distribuito dalla mafia nei negozi di Valona e rivenduto. Era Rhami Isufi, il più grande boss della città, che comandava nel campo, lui che decideva da chi comprare gli alimenti. Veniva nel campo come fosse suo, e nessuno lo fermava. Anzi, lo accompagnavano. Penso proprio che ci fosse sotto una specie di tangentopoli. Isufi era proprietario del locale Hotel Bologna, che ospitava tutti i capi del campo: lì si facevano grandi cene, alle quali venivano invitate le più belle ragazze che vivevano nel campo. Come cuoco, poi, vedevo quello che davano da mangiare ai profughi: la carne era spesso avariata, nera. Di pane ne arrivavano magari 150 chili, ma dovevo dichiarare che erano 300. Nelle riunioni, quando i rappresentanti dei kosovari si lamentavano, gli veniva risposto che loro venivano dalla guerra, e dovevano essere contenti di quello che c’era. Poi, cominciarono anche a sparire dei bimbi e delle ragazze, senza che si sapesse dove finivano (questo è un aspetto della vicenda che non ha trovato conferme dalla indagine giudiziaria, n.d.r.). Tutto questo accadeva in un campo sorvegliato ventiquattr’ore al giorno. in soli due mesi, fino al 10 luglio, quando il campo fu chiuso e i profughi tornarono in Kosovo, senza scarpe, con due pomodori, due panini ed un po’ d’acqua ciascuno, mentre centinaia di container degli aiuti rimanevano lì strapieni. Fu quel giorno che nel campo, pieno di poliziotti e militari italiani, entrarono i furgoni della mafia per prendersi tutto, difesi dai kalashnikov. L’ospedale del campo, all’avanguardia, sparì in quaranta minuti”.
È stato a quel punto che ha deciso di girare un video?
“Io sono un videoamatore. Avevo fatto foto e video del campo per tutti i due mesi. Ma quello fu il più lungo: 21 minuti di ripresa del saccheggio del campo sotto gli occhi degli italiani: ero terrorizzato, ma ho continuato a riprendere. Quando vidi avvicinarsi, piena di merce, l’auto della Protezione Civile di Luciano Tenaglia (il direttore del campo, arrestato nel gennaio 2000 per falsificazione della contabilità, ed uno degli imputati del processo in corso, n.d.r.), smisi, temendo per la mia vita. Dopo essere stato due giorni chiuso in casa di un amico, riuscii a scappare a Pristina. Tornai in Sicilia un mese dopo, e decisi di denunciare, di mostrare la cassetta. Dopo i rifiuti di Rai e Mediaset, contattai Elisabetta Burba, giornalista di ‘Panorama’. Il giorno dopo era a casa mia, e le lasciai la cassetta senza volere niente in cambio. I primi di settembre ero di nuovo a Pristina, mentre in Italia usciva in televisione lo scandalo della missione Arcobaleno, con il mio filmato. Qualche tempo dopo mi contattò il giudice Michele Emiliano, che era risalito al mio nome, chiedendo di interrogarmi in cambio di protezione. Accettai”.
Com’è cambiò la sua vita?
“A Cefalù, nessuno mi voleva più aiutare, né dare un lavoro. Dicevano che ero diventato uno sbirro. Ricevevo minacce anonime per telefono. Un giorno, mentre io e la mia famiglia eravamo fuori, la mia casa andò a fuoco. Nell’aprile 2000, con la fine della protezione, ci trasferimmo a Firenze, e tre giorni dopo trovai lavoro come cuoco in un albergo a quattro stelle. Smisi di seguire le vicende giudiziarie della missione Arcobaleno. A Firenze andò tutto bene fino al 2004, quando - non so cosa sia successo esattamente, non potrei fare nomi - credo che qualcuno di quelli che avevo denunciato mi trovò. Iniziai a ricevere perquisizioni di polizia in continuazione, per strada e dentro l’albergo, mentre lavoravo, tanto che fui costretto a licenziarmi. Poi, nel giugno 2005, il poliziotto della questura in cui stavo rinnovando il permesso di soggiorno me lo strappò davanti agli occhii, dicendomi di andarmene, che il permesso di soggiorno non lo avrei avuto più, e aggiungendo: ‘Se hai coraggio, denuncia di nuovo”. Rimasi quattro anni in questa situazione. Benché il mio permesso fosse valido, materialmente non lo potevo mostrare, sicché non potevo lavorare. Rimanevo chiuso in casa con i miei. Nel 2009, disperato, mi feci coraggio e andai in questura chiedendo di essere arrestato ed espulso, attirando l’attenzione e facendo chiamare un avvocato. In questo modo ottenni un permesso nuovo, con il ‘consiglio’ di andarmene dalla città. Da quel momento non ho quasi più avuto nulla a che fare con la mia famiglia, che rimase a Firenze. In un primo tempo sono tornato in Albania (da dieci anni non ci andavo), poi ho lavorato a Foggia, finché quest’anno credevo di aver trovato un lavoro a Trento. Ma quando sono arrivato il posto era stato dato ad un altro. Ho fatto due mesi di lavoro in Val di Sole, fino al 29 agosto, dopo di che non ho trovato più niente. Sono diventato un barbone, ho dormito dieci giorni dietro la stazione. Ho cominciato ad andare a pranzo al Punto d’Incontro, dove ho conosciuto persone meravigliose. Mi hanno accettato a cucinare lì come volontario, in cambio di un posto come ospite a Villa Sant’Ignazio, finché non avessi trovato un lavoro”.
La pessima gestione degli aiuti e del campo profughi di Valona da parte delle autorità italiane è ormai un fatto assodato, confermato anche dal rapporto di una commissione d’inchiesta parlamentare istituita nel settembre 2009. Per quanto riguarda le accuse più gravi, invece, solo alcune hanno potuto essere verificate dagli inquirenti, ma la testimonianza di Vladimir Duro ha comunque contribuito al rinvio a giudizio di 25 persone e al sollevamento di uno scandalo politico. Oggi Vladimir non ha più molto interesse per queste vicende, a causa delle quali ha perso praticamente tutto. È sereno e convinto di aver fatto il suo dovere. Ed ha altre priorità: “A me non piace essere mantenuto, voglio potermi mantenere. Per ora, ho mandato 384 e-mail ad alberghi e ristoranti del Trentino Alto-Adige, ricevendo tre risposte, tutte negative. Un’amica ha scritto una lettera a tutti i sindaci della regione perché trovino qualcosa per una persona che ha fatto molto per l’Italia. Spero che qualcosa possa arrivare. Il giudice (Emiliano, n.d.r.) ha fatto bene il suo dovere e sono otto anni che è sindaco di Bari, io ho fatto bene il mio ed eccomi qua”.