“Muore un po’ alla volta chi si arrende”
Non accade spesso, purtroppo, che la televisione mi tocchi "dentro". L’ultima volta è capitato sabato 26 gennaio mentre seguivo "Che tempo che fa", e Antonio Albanese, uno dei nostri migliori attori, stava dando voce e gesti a una sua creatura, l’onorevole Cetto Laqualunque. Cetto, lo dico per chi non lo ha mai incontrato sul video, è un parlamentare clientelista, maschilista, prepotente, mafioso, ignorante e, da uomo di potere, orgoglioso della sua ignoranza. Improvvisamente Albanese si è fermato, è ammutolito, in silenzio si è tolto la parrucca, la giacca con le spalle "rinforzate", la cravatta sgargiante, insomma la "divisa" di Cetto. Ha guardato un attimo la telecamera, con uno sguardo triste e forse disperato. Poi, invano richiamato da Fazio, ha lasciato lo studio.
Il messaggio mi è parso chiaro. In quelle ore Cetto cessava di essere una caricatura, era diventato un personaggio del tutto reale: era quel senatore dell’Udeur che poco prima, nell’aula di palazzo Madama, sputava in faccia al collega, era quell’altro, di AN, col golfino rosso sulle spalle, come se fosse in gita fuori porta, che masticava fette di mortadella a bocca aperta, era quell’altro ancora, di Forza Italia, che aveva stappato una bottiglia di spumante e la offriva ai colleghi. Con la sua faccia triste da inerme cittadino, Albanese sembrava chiedere a se stesso ma anche a noi: "Perché continuare nella satira? Ormai i Cetto Laqualunque hanno vinto".
Siamo in molti, credo, a condividere quella desolazione. Ritornano (non "al potere": quello, più o meno legalmente, non l’hanno mai perso davvero), ritornano alla direzione dello Stato, con una forte maggioranza in Parlamento, Berlusconi & C.: il capitalista brianzolo barzellettiere, irriso da tutti gli economisti del mondo, ma anche temuto per le sue improvvisazioni, la smodata ricchezza, l’astuzia predatoria; e i suoi manutengoli: quelli di stretta familiarità (come Dell’Utri, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e in secondo grado per estorsione aggravata) e i mascalzoncelli ravveduti, tornati a brucare la mano del padrone, come Casini; gli eversori della giustizia piegata ad personam perché poi il Capo possa vantarsi di essere stato, "prima", perseguitato; i Fini che fanno sapere ai giornalisti di essere padri tenerissimi di figli neonati ma non dimenticano di essere stati autori di leggi spietate; le Moratti che, in base a quelle leggi, cacciano dagli asili comunali i figli degli emigrati non "in regola"; i Bossi che si vantano di poter trovare facilmente le armi per una rivoluzione padana; l’onorevole Storace che insulta la signora Levi Montalcini.
Sono già sicuri di stravincere le prossime elezioni ed io credo che non si sbaglino: il governo Prodi, i partiti che lo hanno sostenuto e travagliato, hanno, quantomeno, sottovalutato l’urgenza di una legge sul conflitto di interessi, di nuove norme per le elezioni. Abbiamo davanti una catena di giorni più che difficili: una campagna in cui la sproporzione dei poteri mediatici impiegati dall’una e dall’altra parte ci farà sputare sangue, se vorremo parteciparvi.
Vinceranno le elezioni, alla grande. C’è un’Italia poveraccia e infuriata dalla precarietà che già preme idealmente alle porte dei seggi per votare contro tutto ciò che possa sembrare "disciplina". Un’Italia mucillaginosa, dice il Censis, un’Italia in cui, dice l’Eurispes, il 51% degli adulti non si fida più di alcuna istituzione e addirittura l’89,6% considera in blocco l’universo dei partiti come una casta di mascalzoni, tutti eguali fra loro.
Considero Albanese – l’ho già detto –un ottimo attore, apprezzo molto gli autori di "Che tempo che fa" (non per niente c’è fra loro Michele Serra) e penso che quello dell’altra sera sia stato un eccellente coup de théâtre. E però lasciatemi dire che la psicosi del perdente perduto è il modo migliore per rendere trionfale la vittoria dei Cetto Laqualunque. E questo non è soltanto un problema politico, già di per sé di fatale importanza.
Non basta, infatti, a mio avviso, elencare le difficoltà economiche del momento, con una crescente "proletarizzazione" di fasce sempre più ampie di ceto medio, né lo sgangherato ansimare dei processi costituzionali che dovrebbero generare governi saldi, politiche di giustizia, investimenti a lungo raggio e così via. Non basta la certezza che il nuovo governo di destra ripercorrerà la strada delle impunità, delle leggerezze, del travolgimento dei diritti dei cittadini.
Si tratta, anche, di etica: di tornare a scegliere valori e prospettive. Si tratta di dare, o di negare, qualità alla nostra vita.
Berlusconi lavora sui circenses, a pagamento. Basta seguire per qualche ora la ottusa banalità dei programmi delle sue televisioni, i film più belli massacrati dalla pubblicità, i suoi tg bugiardi, i suoi "divertimenti" goliardici, le sue "striscie" vagamente ricattatorie. per comprendere quale devastazione culturale semini fra il gli utenti. Come sappiamo, attraverso i suoi dipendenti infiltrati nella RAI, non si limita a presenze istituzionali nella cosiddetta televisione pubblica, piegandone i dirigenti.
Del suo amico Craxi si diceva che governasse un clan di nani e ballerine; Berlusconi non si interessa dei nani.
Temo fortemente che con il suo nuovo governo, l’onda (o dovrei dire: l’orda?) montante della malacultura diventerà regime; e a un regime non si può rispondere se non con un vasto e profondo impegno culturale e morale. Forte sarà la tentazione di rinchiuderci in noi stessi, mandando al diavolo la politica, anche quella dei partiti cui abbiamo creduto. Berlusconi & C. faranno di tutto per convincerci che questa sarà saggezza.
Forte sarà la tentazione di serrarci in casa, di evitare problemi che sembrano non toccarci personalmente, di cercare di difendere il futuro dei nostri figli e nipoti, pagando, se necessario, qualche prezzo. Faranno di tutto per convincerci che questa sarà realismo. Forte sarà la tentazione di rispondere a chi venisse a sollecitarci per qualche militanza politica. "Grazie, ho già dato".
Forse tocca proprio ai vecchi come me, che hanno qualche cicatrice da obiezione di coscienza, dire: badate, la vita è bella soltanto quando è piena, cioè amorosa e coraggiosa. Non si tratta di impugnare una clava e presidiare l’imboccatura della grotta di famiglia, ma di vivere in modo che la sera, ponendo la testa sul cuscino, si possa dire a noi stessi: "Beh, povero cane, anche quest’oggi non hai perso la tua dignità né minacciato quella degli altri". Si tratta - e questo è il dono più bello che possiamo fare ai nostri figli e nipoti - di creare reti di consentaneità, di solidarietà, di amicizia militante, non soltanto proclamata. Di ricordare gli antichi maestri. Di ricordare le antiche resistenze. Di non cedere le speranze più care.
Amici che hanno vissuto questa sgradevolissima esperienza mi dicono che l’incursione di un ladro in una casa non provoca soltanto danni e perdita di oggetti che hanno un valore ben più alto di quello venale, viene vissuta come una profanazione di qualcosa di sacro; ed è umiliante, come l’incontro con un voyeur o un esibizionista. Mi è capitato di vivere questi sentimenti quando l’onorevole Mastella, mentre sparava la sua lupara rosa contro il governo di cui faceva parte, ha citato una poesia che anche lui, come me, credeva di Pablo Neruda. Adesso so che la poesia non è di Neruda ma della scrittrice brasiliana Martha Medeiros; ma non voglio che "Lentamente muore" rimanga soltanto sui resoconti stenografici della Camera, legata, oltre a tutto, a una brutta pagina della democrazia italiana: perché non farne un programma di resistenza alla subcultura berlusconiana?