Per il Kenya
Il 2008 doveva essere un anno importante per il Kenya, che si appresta a festeggiare il 45° anniversario dell’indipendenza dall’occupazione britannica, ottenuta nel 1963. Il 2008 sta diventando invece un punto di non ritorno per la giovane democrazia del Paese. Le elezioni presidenziali di fine dicembre con la proclamazione del presidente uscente Mwai Kibaki quale vincitore (per poche migliaia di voti) sullo sfidante Raila Odinga, hanno fatto scoppiare scontri e violenze in tutto il territorio nazionale. I sospetti di brogli nelle operazioni di spoglio e nel conteggio dei voti sono stati subito molto forti e confermati da più fonti, tra cui la missione di osservazione elettorale inviata dall’Unione Europea.
Le contemporanee elezioni parlamentari hanno visto la netta affermazione del principale partito di opposizione, l’Orange Democratic Movement (Odm) di Odinga, che si è assicurato la maggioranza relativa in Parlamento con oltre 100 seggi rispetto ai 43 assegnati al Partito di Unità Nazionale di Kibaki. Il governo uscente è stato pesantemente penalizzato dal voto, considerato che 21 ministri del governo Kibaki non sono riusciti ad ottenere la rielezione. Contemporaneamente forte è stata la spinta per il ricambio nella rappresentanza politica, considerando che il Parlamento è stato rinnovato per oltre il 65%, con l’elezione di candidati giovani e al primo mandato.
Eppure le operazioni di voto si erano svolte con una forte partecipazione popolare in un clima di compostezza che aveva portato gli osservatori internazionali ad esprimere ammirazione per la maturità democratica dimostrata dal Paese. Oggi, invece, il Kenya è sull’orlo di una guerra civile con connotati di scontro etnico del tutto simile a quelle già scoppiate negli scorsi anni in altri paesi del continente africano (Costa d’Avorio, Somalia, Ruanda, Sierra Leone, ..). La fredda contabilità delle vittime degli scontri parla di più di 1.000 morti e di oltre 300.000 persone sfollate dalle proprie abitazioni.
Nell’ultima campagna elettorale i politici kenyani hanno cavalcato la questione etnica allo scopo di incidere sulle diversità tribali in modo da garantirsi posizioni di vantaggio nella conquista del consenso. Una novità: mai prima d’ora le differenze politiche corrispondevano a differenze etniche.
Peraltro il sistema kenyano è caratterizzato dalla regola del "chi vince prende tutto" e quindi ogni strumento è stato ritenuto utile per riuscire a raggiungere la maggioranza.
Ora il Paese è spaccato in due e nessuno dei contendenti vuole cedere: Odinga ha dalla propria parte Luo, Luhya e Kalenjin assieme ad altri gruppi etnici minori che sono sempre restati ai margini del potere, nonché gran parte dei poveri e dei diseredati che affollano le baraccopoli delle principali città della nazione; Kibaki può invece contare sulle strutture dello Stato.
Entrambi pensano di essere in grado di porre fine alle violenze non appena saranno riusciti ad avere il sopravvento. Ma se gli scontri non cessano, entrambi non saranno più in grado di controllare la contrapposizione anche tribale e la situazione diventerà ingestibile.
Ci troviamo davanti a una classe politica pronta a sacrificare le vite di migliaia di persone sull’altare del potere. Senza contare come la situazione kenyana comporti una crisi economica regionale che minaccia le economie di Paesi vicini come Uganda, Ruanda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo e rischia di paralizzare gli sforzi della comunità internazionale per la risoluzione pacifica dei conflitti che attanagliano Somalia, Sudan e Congo.
Quali possono essere le soluzioni, esiste un modo per uscire da questa drammatica situazione? Purtroppo nessun gruppo e nessuna personalità in Kenya ha il sostegno popolare o l’imparzialità necessaria per fare da arbitro del conflitto. Al tempo stesso è difficile capire il grado di influenza che la comunità internazionale può esercitare per portare Kibaki e Odinga al tavolo dei negoziati. La regione non è decisiva per gli interessi Usa, mentre sono forti gli interessi europei soprattutto nel turismo, nell’industria agroalimentare e nel settore finanziario Le scelte a livello internazionale sembrano aver dato la precedenza ai tentativi di mediazione e di creazione di un dialogo tra le parti in causa portati avanti all’interno dell’Unione Africana – con l’appoggio deciso dell’Unione Europea - attraverso la presenza in Kenya di personalità prestigiose tra cui Kofi Annan, già Segreterio Generale dell’ONU.
I segnali provenienti dai primi tentativi di mediazione non sono però incoraggianti. Il perpetuarsi delle violenze e l’uccisione in questi ultimi giorni di due deputati del partito di Odinga non contribuisce certamente a scacciare le nubi che coprono l’orizzonte kenyano..
La drammaticità della situazione richiede anzitutto che i due contendenti alla carica di Presidente, abbandonando ogni rivendicazione posta per trattare, si attivino per porre fine agli scontri, agli spargimenti di sangue e alle devastazioni. Successivamente si dovranno trovare le strade opportune per analizzare l’esito della competizione elettorale e preparare il Paese per una nuova tornata elettorale che superando i rischi legati alla rivalità etnica ponga le basi per una pacifica convivenza.
Quanto è avvenuto in queste settimane è il frutto di una frustrazione e di una divario sociale enorme considerando che quasi il 60% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno; è il tradimento delle aspettative che la gente, soprattutto quella più emarginata, aveva posto in questa tornata elettorale. La vivace partecipazione alle elezioni contrapposta al così infelice momento post elettorale non può che portare le persone ad essere sfiduciate rispetto al valore di un processo democratico. Gli abitanti degli slums sono i soggetti che avvertono più questo squilibrio e l’ingiustizia, dal momento che sono coloro che più hanno avuto fiducia in queste elezioni.
Non possiamo ricordarci del Kenya solo quando si tratta di scegliere la destinazione esotica delle nostre vacanze. E’ arrivato il momento di dimostrare la nostra volontà di aiutare la popolazione del Kenya ad uscire da questo buio tunnel in cui si è infilato.
Non si tratta, stavolta, di chiedere l’invio di finanziamenti, ma di utilizzare tutti i canali a disposizione per fare pressione sul governo e sulle forze politiche kenyane (considerando che l’Italia è membro temporaneo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) affinché imbocchino la strada del dialogo e della considerazione prioritaria dell’interesse dell’intera nazione e della popolazione tutta rispetto a quelli dei raggruppamenti politici o delle rivendicazioni etniche.
Questo chiediamo alla Provincia di Trento, che è presente in Kenya con alcuni progetti di cooperazione allo sviluppo, e ai parlamentari trentini a Roma e al Parlamento Europeo.
Ai singoli cittadini che si interrogano su come possono dare il loro contributo alla risoluzione della crisi chiediamo di fare pressione diretta sull’Ambasciata del Kenya in Italia (tel. 068082717-18 Fax 068082707 / e-mail: info@ embassy ofkenya.it) attraverso messaggi che chiedano la fine delle violenze e l’inizio di un vero dialogo costruttivo tra le parti.
Da parte nostra il pensiero va agli amici della baraccopoli di Korogocho che seguiamo da anni. A padre Daniele Moschetti, a padre Paolo Latorre, ai volontari laici che hanno deciso di rimanere nello slum per portare la loro testimonianza di condivisione. Agli amici dei gruppi del Bega kwa bega, dei ragazzi di strada, del recupero nella discarica di Dandora, della parrocchia di St. John. A tutta la gente di Korogocho e delle altre 200 baraccopoli di Nairobi che ancora una volta è quella che subisce le conseguenze nefaste di una situazione politica e sociale delicata e che vede tradite le proprie aspirazioni di cambiamento e di riscossa.
* Associazione Tam Tam per Korogocho