Pochi ricchi, troppi poveri, troppi disoccupati
La difficile democrazia della Bosnia-Erzegovina
“Durante il periodo Titino la Jugoslavia è stato un sistema ordinato, monopartitico ma ordinato. Ora, specialmente la Bosnia-Erzegovina, è un sistema disordinato, un sistema in transizione che sta imparando i termini della democrazia”, mi dice Milenko Radivojac, direttore del Museo di Storia di Prijedor. Cerco di interpretare le sfumature nel suo tono di voce e nel suo sguardo: questa frase, che conclude la nostra conversazione, mi sembra sia detta mescolando la nostalgia alla convinzione che la democrazia sia un metodo migliore, ammesso che sia applicata correttamente.
Nelle conversazioni quotidiane, soprattutto con i giovani, parlare di democrazia - di politica - ha risvolti molto concreti. Si parla di economia, dove economia significa lavoro. Che non c’è, e quando c’è non è accessibile se non, troppo spesso, attraverso la politica. A dicembre incontro Jasna, da pochi mesi insegnante di inglese in una scuola. Parliamo di una possibile collaborazione su un progetto di scambio fra scuole. “Spero di lavorare ancora a gennaio, io non ho nessuno alle spalle, mi stimano ma c’è qualcuno più ‘importante’ di me pronto a prendere il mio posto”. A gennaio i suoi timori sono confermati: ha perso il lavoro, e non per demerito.
Molte sono le persone che lavorano occasionalmente, o costantemente, in nero. In Bosnia Erzegovina (BiH) il tasso di disoccupazione ufficiale segna un poco invidiabile 42%, ma grande è la fetta della torta rappresentata dall’economia sommersa. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) stima che “solo” il 25% della popolazione sia realmente disoccupata: coloro che stanno fra il 25% e il 42% sono i nuovi schiavi, lavoratori senza ferie né contributi e con salari dimezzati rispetto alla media statale, che si aggira intorno ai 400 euro. “Prendere o lasciare”, è il commento più comune dalle persone che si trovano in questa situazione. E prendere, senza curarsi delle condizioni, è l’unica opzione disponibile a fronte di un mercato del lavoro immobile.
Tre anni disastrosi
La BiH prima del conflitto del ‘92-’95 ospitava gran parte dell’industria pesante statale legata alla difesa: acciaierie, miniere, ecc. A Prijedor, seconda città della Republika Srspka, c’era Rudnika Ljubjia, la più grande miniera di metallo della Jugoslavia. Sul finire degli anni ‘80 la miniera si era ingrandita fino a contare circa 5000 dipendenti. Nel 1992, con l’espandersi del conflitto alla Bosnia, la miniera ha sospeso le operazioni di estrazione che sono riprese, ridimensionate, nel 2004, quando ArcelorMittal, leader mondiale nel settore siderurgico, ha assunto il 51% della società. I 5.000 dipendenti sono diventati poco più di 700 nel 2010. Dopo Rudnika Ljubjia, il secondo motore dell’economia cittadina era Celpak, la cartiera e fabbrica di cellulosa situata poco a sud del centro città. Dal 1992 al 2005 ha funzionato a ritmo ridotto. Ora è chiusa: da anni si parla di una sua riconversione in Business Center, ma poco è stato fatto fino ad ora, bloccato da un processo di privatizzazione ancora incompleto e da interessi politici divergenti fra Prijedor e Banja Luka. Mi viene detto in via confidenziale: “Alcuni imprenditori italiani sono stati invitati ad impiantare le loro attività a Banja Luka, dove il sindaco è dello stesso partito del presidente del governo della Republika Srspka. Qua il sindaco è espressione di un partito diverso”.
Gli anni di conflitto fra il 1992 e il 1995 sono stati la Waterloo dell’industria bosniaca e del sistema economico socialista jugoslavo. Il processo di privatizzazione della grande industria, elemento fondante della transizione dall’economia socialista all’economia di mercato, è tuttora incompiuto e frena la ripartenza dell’economia statale. Due i fattori principali: da una parte c’è un problema irrisolto di proprietà della terra, specialmente per quanto riguarda le proprietà industriali, proveniente in larga misura dalla proprietà sociale caratteristica dell’economia jugoslava. Per registrare una proprietà in Bosnia-Erzegovina ci vogliono in media 2 mesi e mezzo, a fronte dei 25 giorni in Unione Europea. E poi c’è un discorso politico. I nazionalismi che hanno portato al conflitto non sono scomparsi con il suo termine. L’ostilità fra le entità, e all’interno di esse fra municipalità e cantoni a diversa composizione nazionale e guida partitica, blocca la creazione di quello che viene chiamato in economia uno “spazio economico” nazionale. Significa, fra le altre cose, che non esiste un sistema di tassazione unico per tutto lo stato e che non c’è un’unica strategia di sviluppo industriale né politiche di supporto alle piccole e medie imprese (la Bosnia-Erzegovina è il paese europeo con il minor numero di piccole e medie imprese); ciò significa che non si creano le condizioni affinché si sviluppi un’imprenditorialità endogena né che vengano attratti investimenti dall’estero facendo leva sull’ampia disponibilità di manodopera, su costi inferiori e su grandi quantità di energia di cui questo paese è ricco. Significa anche che uno stato che non produce ricchezza non è nemmeno in grado di sostenere uno stato sociale capace di aiutare disoccupati, anziani e persone in bisogno. Significa, in altre parole, che c’è poco, pochissimo lavoro.
La Bosnia come il Maghreb?
Sull’uscio della porta del Museo il direttore mi dice: “Ho paura che nascano disordini come in Tunisia. Sono troppo pochi i ricchi e troppi i poveri, troppi i disoccupati”. Il mio taccuino degli appunti è chiuso, la penna in tasca e io troppo lontano per sentire bene. Mi sembra di cogliere un riferimento a una crescente insoddisfazione verso un sistema democratico che non funziona, se non per quelli che ne sono (o diventano per necessità) complici. Forse mi confondo. L’ho sentito dire, ma con rassegnazione, da Zeliko: “Ritorno in Bosnia Centrale, mio cugino è in politica e mi ha promesso un lavoro”. Da un suo amico, che spera di ottenere la cittadinanza croata per poter finalmente lavorare regolarmente a Fiume. Da Jasna, che ha perso il posto perché non è “importante” come altri. E da tanta, troppa gente, di cui non ricordo il nome ma ricordo l’espressione amareggiata. La Bosnia-Erzegovina, in quanto a democrazia, non è paragonabile all’Africa del Nord: sta imparando i suoi meccanismi. Ma, come sosteneva Carlo Saccone (QT, febbraio 2011), “la rivolta dei giovani del Maghreb e dell’Egitto parte da problemi (disoccupazione giovanile, inutilità del titolo di studio sul mercato del lavoro) che in parte sono anche i problemi dell’Europa meridionale, dalla Spagna alla Grecia passando per l’Italia e i Balcani”.