Un paese che fatica a riprendersi
La Bosnia Erzegovina fra confusione politica e recessione. Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.
In vent’anni lo skyline di Sarajevo è totalmente cambiato: ancor più minareti, grattacieli e centri commerciali; sono rimaste poche le colline dove andare per svagarsi, divise tra quelle sempre più bianche a causa delle migliaia di tombe che danno verso La Mecca e quelle ancora coperte di mine anti uomo. Legate tra di loro da un macabro filo conduttore che spiega, si fa per dire, la storia di una città violentata dalla guerra fratricida. Quella che una volta veniva chiamata la New York dell’ex Jugoslavia, oggi rinasce dalle sue ceneri, dal suo assedio di mille giorni, dalla diaspora dei suoi abitanti, dall’architettura cancellata dai bombardamenti. Anche gli odori cambiano: il forte e penetrante aroma di caffè turco che permeava le strade lastricate di pietra del centro storico oggi è accompagnato dall’intenso e invasivo odore del fast food simbolo della globalizzazione, il McDonald’s da cui la Bosnia Erzegovina era immune fino al luglio 2011.
Questo a Sarajevo, ma nella provincia la storia cambia molto, perché difficilmente si può parlare di rinascita, di ricostruzione, di Internet. Della Bosnia non si può neanche dire con certezza quale sia la composizione etnica, né il numero reale dei suoi abitanti, visto che l’ultimo censimento risale al 1991 (prima della guerra) e i tentativi fatti nel 2001 e nel 2011 sono saltati. Aspettando il censimento che dovrebbe svolgersi nel 2013, si sono già aperte le polemiche da parte di alcune Ong bosniache che si sono attivate per denunciare evidenti elementi di discriminazione contenuti nel formulario e nella procedura indicata per il suo svolgimento.
In un paese diviso su tutto - nazionalità, religione e lingua - rischiano di essere, ancora, strumenti di controllo e discriminazione. Quel che appare evidente è che nel 2013 si potrà solo constatare che la pulizia etnica ha avuto successo in un paese che veramente avrebbe potuto rappresentare un modello d’integrazione per tutta l’Europa.
Le poche certezze vengono da alcuni indicatori economici: a partire dal 17 maggio 2006, la Bosnia ha ricevuto un rating del credito “B2”, in seguito confermato (gennaio 2010), con un outlook stabile, dal Moody`s Investors Service. Il servizio di rating di Standard & Poor’s ha confermato, a dicembre 2010, il rating del credito “B+” con un outlook stabile. Il tasso di disoccupazione decresce, ma spaventa sempre: nel 2001 era del 40,3%, nel 2010 del 27,2%; e ogni anno qui si spende un miliardo di euro per importare prodotti alimentari. Un’altra curiosità: la moneta locale, che si chiama convertible mark, si riferisce a una valuta che non esiste più da tempo, il marco tedesco, e sembra anche al tatto carta straccia, tanto sono logore e svalutate le banconote che capita di maneggiare.
Tutti questi dati evidenziano come nel paese non si possa parlare di crisi economica quanto di collasso del sistema, evidenziato anche dall’assurda composizione istituzionale e politica che regge il paese, specchio vero della sua divisione. Stato centrale, confederazioni, presidenza a rotazione, cantoni, municipalità, voto etnico-religioso, almeno undici diversi modelli di governo locale: un puzzle complicatissimo, tacciato di “razzismo istituzionale” dalla Corte per i diritti umani di Strasburgo, al quale Bruxelles ha dato un aut aut come presupposto per un dialogo.
Ma il futuro della Bosnia dipende solo in parte da quanto accadrà lì in termini di riforme e aperture di mercato: se solo qualche anno fa un futuro ingresso della Bosnia Erzegovina nella Ue poteva apparire scontato, oggi, con la crisi de sud Europa, l’ingresso di questa parte di ex Jugoslavia nella unità politica e monetaria continentale sembra distante anni luce.