Futuro presente
Si fa presto a dire realtà...
Prendiamo a prestito il titolo di uno dei tanti incontri che hanno costellato le tre intense giornate di “Futuro Presente”, per sottolineare l’estrema soggettività nell’interpretazione del dato “reale” testimoniata dalle opere e dai discorsi dei registi, critici e filosofi che si sono alternati al festival roveretano. Dopo le speculazioni “filosofiche” della prima giornata (sia Franco Rella che Enrico Ghezzi hanno ribadito la centralità della riflessione sul momento presente e la difficoltà del cinema - nonché della società - nell’immaginare il proprio futuro), si è passati ai fatti con i film di Marco Bellocchio, Giorgio Diritti, Michelangelo Frammartino e Pietro Marcello. All’opera di Bellocchio è stata dedicata un’intera giornata, inaugurata dalla proiezione de “I pugni in tasca”, pellicola d’esordio tra le più dissacranti della cinematografia italiana degli anni ‘60. Sia nel confronto con la storia ufficiale (“Buongiorno, notte”, “Vincere”) che in quello più intimo con la storia personale (nel suo ultimo film, “Sorelle mai”, l’autore dirige la sua stessa famiglia), i lavori di Bellocchio rimangono come sospesi in un mondo parallelo, equidistanti tra realtà e fantasia. Come egli stesso ha dichiarato, sono le emozioni e non la ricerca della verità a muovere il suo cinema.
Più realistici -anche se con modalità per certi versi antitetiche- i film di Frammartino (“Le quattro volte”) e Marcello (“La bocca del lupo”). Entrambi sono nati da un’immersione totale, da una lotta corpo a corpo con la realtà. Questo legame fortissimo costringe i registi a mutare radicalmente il loro stesso modo di agire, abbandonando ogni traccia di sceneggiatura e lasciandosi guidare dal susseguirsi degli eventi, se necessario rincorrendo pazientemente le peripezie di una capra (nel caso di Frammartino) o imparando a montare direttamente in camera (nel caso di Marcello). Il risultato è al contempo reale e poetico, come se solo le storie più semplici e le piccole cose riuscissero nell’intento di bucare lo schermo e trasportare lo spettatore nel cuore della realtà. Anche il cinema di Diritti trova la sua forza nella microstoria delle piccole comunità, della cui identità il regista si fa interprete, memore della lezione di Olmi, soprattutto nella scelta del dialetto come mezzo privilegiato d’espressione, ma con un rinnovato impegno etico e civile (“L’uomo che verrà”).