Linguaggi e sperimentazioni
Una collezione-sismografo di arte contemporanea
Se dovessimo prendere l’esuberanza e la colorata chiassosità di quella specie di mostro fatto di scarti tessili e bigodini che ci accoglie fuori dalla porta del Mart (opera di Anna Galtarossa) come segnali indicativi del tono generale della mostra (Linguaggi e sperimentazioni, fino al 22 agosto), potremmo essere fuorviati. Perché non è il sensazionale e il meraviglioso il segno che vi domina: piuttosto, l’attitudine a interrogarsi e riflettere, non senza qualche episodio abbastanza ermetico.
La prima opera, che ci si presenta appena superata la soglia, possiede una rara capacità di coinvolgimento. Ti colpisce per semplicità e forza, quella lunga fila di ciottoli addossati alla parete bianca, diversi, ciascuno ricoperto da una calottina scura, che parla chiaramente di persone e non solo di sassi, di un dramma ma anche di una forza condivisa: è il palestinese Nida Sinnokrot, che ci racconta la condizione del suo popolo ad un livello di inventiva poetica che non ritroveremo in altre opere, ma contiene uno dei fili portanti delle ricerche qui presentate.
Pur essendo anche uno sguardo sull’attualità, la mostra della collezione AGI di Verona è un modo di mettere le cose in prospettiva. Non solo perché l’arco temporale delle opere abbraccia quasi un ventennio (la prima è del 1992), ma anche perché il gruppo che l’ha voluta si è dato come criterio quello di acquistare opere appena realizzate da artisti ancora in via di affermazione, venendo così a costituire una sorta di sismografo, parziale ma indicativo, dell’innovazione internazionale. A quel punto, la scelta sull’intera collezione operata da Giorgio Verzotti per questa mostra (un secondo gruppo di opere, di una generazione oggi ormai affermata o addirittura famosa, entra a far parte come deposito di lungo periodo presso il Mart), senza imporre particolari griglie e apparentamenti, ma anche senza dispersioni, ci immette in ambiti di ricerca in cui, accanto a un’estrema libertà espressiva, avvertiamo modi condivisi di sentire il linguaggio e il ruolo dell’arte.
Questi artisti si servono praticamente di qualsiasi oggetto prelevato dalla vita reale come mezzo linguistico (per cui è quasi sorprendente il caso di qualcuno che si permette ancora di usare la pittura): le bottiglie di Mircea Cantor (Energia, 1996) che furono di ogni sorta di bevanda prevalentemente alcolica ed ora sono diventate contenitori di ciò che sembra latte; oppure la fila di zappe prive di manico, disposte come colonna vertebrale di un essere preistorico (A Coluña, 2005, del brasiliano Marepe), sono due esempi tra quelli dotati di maggiore capacità evocativa. Non basta, è chiaro, constatare che simili artisti trovano il loro ascendente nobile in Duchamp. Oggi (è passato un secolo o poco meno) a loro interessa qualcosa che lasciava piuttosto indifferente il geniale fondatore del dadaismo, e cioè la vita, la società. Uno dei più evidenti fili condivisi del percorso è proprio lo sguardo più o meno critico sul mondo, una forma di “responsabilità” che emergeva già con una certa chiarezza, ad esempio, nella mostra Eurasia tenutasi al Mart un paio di anni fa, come uno dei lasciti di lunga durata di Joseph Beuys. Lo vediamo in modo ancora più esplicito nella critica di un certo uso del linguaggio verbale di Bruno Peinado (Blah, Blah, Blah, 2001) che cita al tempo stesso il fumetto e i mobiles di Calder; nei televisori indicati direttamente come “trappole” da Django Hernandez (2005), episodio non isolato dell’interesse rivolto dai giovani artisti per i mass media; nel degrado della vita urbana che passa in diverse opere video. La stessa attenzione rivolta al ruolo dell’artista e al sistema dell’arte fa parte di questo approccio, se guardiamo ad esempio alla singolare, autoironica opera di Piero Golia, ottanta lettere incorniciate in oro di operatori dell’arte che scrivono un appello affinché sia risparmiato a Golia Piero il servizio militare in considerazione del suo valore come artista, gesto insieme antimilitarista e di ipertrofia dell’ego (“To whom it may concern”, 2001).
In generale un’opera d’arte deve parlare da sé. Ma qui i titoli contano. Spesso sono una chiave di lettura indispensabile, anzi qualche volta, come accennavamo, non bastano in questo tipo di arte che si propone come idea e come parte di un processo più ampio di ciò che guardiamo in quel momento, a maggior ragione in collettive in cui il percorso del singolo non sempre è evidente in una sola opera. Andrebbero, insomma, date al fruitore (che non è lo specialista) informazioni che possano quantomeno aiutarlo a capire perché un oggetto o una foto non sono un semplice scampolo di realtà, ma parte di un gesto artistico.