Filmfestival della montagna
Storie, cultura, emozioni
“Devi rafforzarti il cuore”. È il bambino che parla e spiega, con tenero sorriso, alla donna adulta. “Sì, per fare questo sentiero, devi avere il cuore forte, non devi avere paura. Allora non cadi giù”. E con un altro sorriso si avvia lungo l’angusto percorso ghiacciato, stretto tra la roccia e il baratro. È un piccolo monaco di otto anni e la sua vita in un monastero buddista abbarbicato tra nevi e rocce a 4000 metri, il protagonista di “Himalaya, le chemin du ciel” dell’etnologa Marianne Chaud, vincitore del Filmfestival della Montagna. E nell’episodio sta tutto il senso del film, e anche tanti dei motivi che fanno del Festival una rassegna preziosa: la piccola vita di un bambino, tanto saggio e sereno nel lavorare per sostentarsi, dove tutto è molto più difficile, e poi ancora trovare il tempo e l’entusiasmo per studiare, giocare, rapportarsi con gli adulti, esplorare il mondo. Chi scrive non sa che farsene della spiritualità, e forse per questo i monaci buddisti che ha conosciuto gli sono sembrati soprattutto dei gran furbacchioni; eppure sono rimasto avvinto da questa storia gentile in posti impervi, che ci parla di una cultura tanto lontana, ci fa palpitare ed apprezzare genti in tutto a noi così distanti. “Hai intenzione di vivere tutta la vita qui?” chiede l’intervistatrice. Il bambino si volta, sullo sfondo di una landa aspra, biancastra e grigia tra nubi perennemente incombenti, e ancora sorride. “Si” risponde sicuro.
Sullo stesso grande tema, la montagna e una popolazione lontana, e l’incontro/contrapposizione di culture e interessi, si muove anche “Sherpas”, ottimo film svizzero-nepalese purtroppo penalizzato da una fotografia non all’altezza. Racconta un’ascensione all’Everest dal punto di vista dei portatori. Gli sherpa, appunto, di cui veniamo a conoscere le immani fatiche, ma anche segreti e sogni, e soprattutto le famiglie, sostenute dal duro e pericoloso lavoro del capofamiglia, alla cui difficile sorte sono legati affetti e sostentamento. A poco a poco, nell’animo di noi spettatori occidentali, magari innamorati dell’escursionismo, la parola “alpinisti” diventa ostile: sono i padroni, i ricchi, i fighetti al cui sfizio i veri uomini della montagna tutto sacrificano. Loro salgono leggeri, mentre i portatori gli fanno trovare tutto pronto, a 7.400 metri la tenda calda, con tavolo e comode poltroncine da regista, il cibo pronto. Per poi arrivare al Campo 4, dove agili gli alpinisti spiccano il volo verso la vetta. Spiccano il volo? Ancora con uno sherpa a fianco, che gli ha già trasportato tonnellate, e ora gli porterà l’ossigeno, lo affiancherà e sosterrà, a rischio ancora della propria vita, che sopra gli ottomila è legata al corpo con un filo sottile, ancor più esile se, per arrivare fin lì, nei giorni precedenti ti sei sfiancato.
È la dura, durissima legge del denaro. Lo sherpa che si stanca, che si lamenta, la prossima volta verrà lasciato a casa.
La spedizione ha successo: tutti gli alpinisti in vetta. “Solo” un morto: un simpatico svizzero, scalatore senza ossigeno, arrivato in cima ma stremato, e che al ritorno non ce la ha fatta. Il capospedizione e gli sherpa discutono di chi sia stata la responsabilità.
La tragedia in montagna, oggetto di mille racconti, viene ripresa dal film al Festival più ricco e commerciale, vincitore del premio del pubblico, “Nanga Parbat” del tedesco Vilsmaier, sull’ascensione dei fratelli Messner e la morte del più giovane, Gerhard. Viene esposto il punto di vista di Reinhold (con cui comunque non risulta tenero), che poi risultò l’unico sopravvissuto, in quanto i componenti della cordata dei soccorritori che non soccorsero morirono di lì a poco in montagna o per suicidio. La forza drammatica del film sta nello spiegare le ragioni per cui si giunge all’incredibile serie di errori e alla successiva tragedia: lo scarso carisma del capospedizione Karl Herligkoffer, autoritario ma non autorevole; l’anarchismo dei Messner, che contestando Herligkoffer minano il concetto di lavoro collettivo di una spedizione; la subalternità e i complessi del più giovane e meno forte Gerhard rispetto all’ingombrante fratello cui, alla ricerca di un riscatto, si ribella nel momento cruciale; la mancanza di soccorsi, anzi l’incredibile, egoistica corsa alla vetta dei soccorritori. La somma degli individualismi porterà alla morte di Gerhard e alle mutilazioni per congelamento di Reinhold, che comunque riesce a discendere, per conto suo, da un altro versante. Il film, felice nelle belle riprese tecniche, accorto nel descrivere il montare delle negatività, non riesce però a collegarle in maniera pienamente efficace con l’esplodere della tragedia; e quindi a nostro avviso non sfrutta appieno le possibilità drammatiche della storia. Eppure rimane un film avvincente (cui auguriamo una buona distribuzione), sulla montagna severissima giudice di un tragico fallimento del gioco di squadra, e su intelligenza e cuore degli uomini, talora grandiosi, talaltra piccola cosa, inadeguata a troppo ardui compiti.
Con questa selezione di film abbiamo inteso sintetizzare il senso della manifestazione, che anche grazie alla direzione artistica di Maurizio Nichetti sta vivendo una seconda giovinezza: tanti film di pregio o comunque significativi; pubblico crescente, tale da portare al limite le attuali capacità organizzative; tematiche culturali non scontate e approcci innovativi e non convenzionali (e scusate se è poco, in un settore che venti anni fa sembrava mummificato). Ora Nichetti si è fatto da parte; auspichiamo si prosegua su questa strada.