La direttiva “inquinata”
L’inchiesta sull’Acciaieria Valsugana ha portato sotto i riflettori una direttiva europea che poteva rivoluzionare la protezione ambientale dagli impatti industriali. Ma chi doveva applicarla l’ha spesso disattesa. Come all’acciaieria Ilva di Taranto. O a quella di Borgo.
Lo scoperchiamento del pentolone d’inquinanti che ribolliva all’Acciaieria Valsugana ha permesso di far conoscere al pubblico l’esistenza di uno strumento che, se usato bene, forse avrebbe evitato il fragoroso epilogo giudiziario e soprattutto l’emissione di una buona parte delle diossine dall’impianto, almeno negli ultimi anni. Questo strumento l’ha messo a disposizione l’Unione Europea, quasi 15 anni orsono, e si chiama IPPC.
“Integrated Pollution Prevention and Control” in italiano significa “prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento”. La sigla, IPPC, dà il nome a una direttiva europea, la 61 del 1996, che nel campo della protezione ambientale dagli impatti industriali doveva portare a una vera rivoluzione, per varie ragioni. La più importante si chiama BAT, altro acronimo inglese che sta per “Best Available Techniques”, ovvero “le migliori tecnologie disponibili”.
Prima della direttiva IPPC, le autorizzazioni alle emissioni in aria, acqua e suolo potevano essere concesse sulla base delle tecnologie esistenti all’interno dell’impianto: hai una tecnologia vecchia, ti impongo limiti compatibili con quella. Con la direttiva IPPC le cose sono cambiate radicalmente. I limiti alle emissioni inquinanti adesso devono essere imposti confrontando le performance dell’impianto con le BAT. In parole povere: anche se usi tecnologie vecchie, io posso importi limiti che tu potrai rispettare solo attraverso le migliori disponibili. Per cui tu, per essere in regola, dovrai cambiarle.
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In Italia piace poco
La direttiva IPPC è stata recepita dall’Italia con un decreto legislativo del 1999, poi sostituito da uno del 2005, che ha esteso l’applicazione anche ai nuovi impianti. Quelli soggetti all’Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia) rilasciata ai sensi della direttiva IPPC in Italia sono circa 6.000. Più o meno il 30% di essi ne è però ancora sprovvisto, per quanto la direttiva richiedesse che i rilasci fossero ultimati entro il 30 ottobre 2007. Inadempienti sono sia il Ministero dell’Ambiente, al quale compete il rilascio dell’Aia per circa 200 impianti di rilievo nazionale, sia le Regioni, alle quali competono i restanti. E così, come spesso capita, nel maggio 2008 l’Unione Europea ha dovuto attivare una procedura d’infrazione nei confronti del nostro Paese, portando infine il caso davanti alla Corte di giustizia, il mese scorso.
Non è solo una questione d’inefficienze e lungaggini burocratiche. È che la direttiva IPPC in Italia piace poco. Di certo a chi attualmente governa il Paese. Nell’autunno 2008, la neo-ministra dell’ambiente Stefania Prestigiacomo decise di azzerare la commissione ministeriale deputata al rilascio dell’Aia, che ai tempi del predecessore Pecoraro Scanio aveva chiuso 78 istruttorie in meno di un anno. Troppo zelanti.
E quella nominata da Prestigiacomo è la stessa commissione cui, due mesi fa, la ministra medesima ha suo malgrado dovuto opporsi, chiedendole di rifare l’istruttoria che, dopo anni di attesa, doveva portare al rilascio dell’Aia per l’Ilva di Taranto, una delle maggiori acciaierie europee, responsabile dell’8% di tutta la diossina emessa in Europa e principale indiziata dell’incidenza ben superiore alla media nazionale di neoplasie polmonari a Taranto. A determinare il dietrofront è stata l’opposizione degli amministratori locali, ma soprattutto dei comitati ambientalisti, che avevano osservato come l’Aia che la commissione ministeriale si apprestava a rilasciare fosse troppo blanda.
E questa è un’altra novità di rilievo introdotta dalla direttiva IPPC: istruttorie che prima erano condotte al chiuso di qualche ufficio, adesso dovrebbero essere trasparenti e coinvolgere il pubblico. Il condizionale è d’obbligo, e con esso si torna da noi, in Trentino.
Da Taranto a Borgo
Anche l’acciaieria di Borgo è soggetta ad Aia, per quanto, in tal caso, la competenza sia locale e non nazionale. La Provincia di Trento è stata tra le prime amministrazioni in Italia a predisporre l’attuazione della direttiva IPPC, incaricando del procedimento l’Agenzia provinciale per la protezione dell’ambiente (APPA).
Quest’ultima, rilasciando nel 2007 l’Aia all’impianto di Borgo, fissava un limite alle emissioni di diossine di 500 nanogrammi per metro cubo d’aria, ossia venti volte inferiore a quello previsto dalla normativa ambientale nazionale in materia di emissioni di diossine, ma mille volte superiore a quello indicato dai riferimenti tecnici comunitari relativi alle BAT (0,5 nanogrammi). Per adottare le BAT e iniziare a rispettare il limite di 0,5 nanogrammi, l’APPA decideva di dare tempo all’acciaieria fino alla fine del 2009.
In questo modo, però, lo spirito della direttiva IPPC è stato tradito in almeno due punti. Il primo: l’insufficiente considerazione delle BAT del settore e l’eccessiva accondiscendenza nei confronti dell’acciaieria, alla quale si è consentito di attendere oltre due anni per iniziare a sottoporsi a un limite che, al momento del rilascio dell’Aia, impianti analoghi in Piemonte, Veneto e Alto Adige già dovevano rispettare, proprio in virtù delle BAT.
Il secondo, ancora più importante: la trasparenza e il coinvolgimento del pubblico nel procedimento. L’interesse certo non mancava: da sempre i cittadini di Borgo e della Valsugana invocavano un intervento per il forte sospetto che le emissioni dell’acciaieria li stessero avvelenando. Sarebbe stato doveroso, da parte della Provincia, attivare un pubblico dibattito, aperto e informato, sui contenuti dell’istruttoria, e dare la possibilità ai cittadini di far sentire la propria voce, come a Taranto.
Questi errori hanno minato una situazione che poi è esplosa per le ormai note violazioni scoperte dai forestali vicentini alle seppur blande prescrizioni cui l’acciaieria era sottoposta: emissioni non autorizzate ed esami di laboratorio taroccati. E qui si aggiunge la terza manchevolezza da parte della Provincia e dell’APPA, quella sul piano dei controlli. È vero che la direttiva IPPC richiede il superamento dell’approccio “comanda e poi controlla” da parte dell’autorità, tramite il coinvolgimento del gestore dell’impianto e la richiesta di un piano di monitoraggio da parte dell’azienda che copra tutta la validità dell’autorizzazione. Ma è evidente che se l’Aia viene rilasciata coi difetti di cui sopra, mettere in secondo piano i controlli rischia di diventare un atto di grave irresponsabilità. E certo non ha aiutato il fatto che in Trentino, caso unico in Italia, il soggetto che controlla (l’APPA) sia lo stesso che autorizza (altrove, invece, sono le Regioni, e non le Agenzie per l’ambiente, a rilasciare le autorizzazioni).
Non solo l’acciaieria...
L’Acciaieria Valsugana non è l’unico impianto trentino al quale la Provincia doveva rilasciare l’Aia. Alla fine del 2007, l’APPA aveva già provveduto a farlo anche per gli altri 49 impianti soggetti. Oltre alle discariche (10) e ai depuratori (13), ci sono una centrale di cogenerazione, 6 cartiere, 6 metallurgiche, 6 tra cementerie e vetrerie, 7 chimiche. Il gotha dell’industria trentina: Sandoz, Manica, Italcementi, Seca, Dolomiti Energia, Cartiera del Garda, Cartiere Villa Lagarina sono alcune delle imprese proprietarie degli impianti.
Trenta sono i Comuni interessati: Rovereto è quello in cui si trova il maggior numero di impianti dotati di Aia (9), seguito da Arco (4), Mezzocorona e Riva del Garda (3). La collocazione di molti degli impianti non è ideale: il 78% ha abitazioni civili a meno di 1.000 metri, e il 58% aree protette. La mappa completa è disponibile sul sito web dell’APPA (www.appa.provincia.tn.it), dove è pubblicato un rapporto sull’attuazione della direttiva IPPC in Trentino.
La parte più interessante del rapporto riguarda i giudizi che l’APPA aveva formulato sugli impianti prima di rilasciare le autorizzazioni, al fine di individuare la necessità di eventuali misure di adeguamento gestionali o strutturali. L’Acciaieria Valsugana nel comparto aria aveva ricevuto un giudizio sufficiente, indicante la presenza di margini di miglioramento. L’impianto di Borgo non è stato l’unico giudicato in tal modo. Lo stesso giudizio nel comparto aria è stato espresso, infatti, per il 15% delle cartiere, per il 30% delle metallurgiche, per il 30% delle cementerie/vetrerie e per il 40% delle chimiche. Giudizio sufficiente è poi stato espresso anche nel comparto acqua per il 10% delle chimiche e per il 30% delle cartiere. In tali casi, l’APPA ha indicato misure di adeguamento, come aveva fatto - seppur a lunga scadenza - per l’impianto di Borgo. Ma il modo in cui poi sono andate le cose fa nascere spontanea la preoccupata domanda: in che situazione si troveranno oggi gli altri impianti ai quali, come a quello di Borgo, erano stati richiesti adeguamenti alla luce di situazioni non soddisfacenti?