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La Lega: predica male e razzola bene?

Politica, crisi economica, immigrazione e sviluppo in un’intervista a Bruno Manghi, direttore del Centro studi nazionale della Cisl.

Sorride Bruno Manghi quando gli chiediamo che Italia è quella uscita dal voto del 13 e 14 aprile. "E’ esattamente quella di un mese prima", dice. Per il sociologo che dirige il Centro studi nazionale della Cisl le elezioni non sono un test così rilevante. "Del resto – aggiunge – le cose fondamentali le sapevamo già: per il 70-80% siamo una società benestante e un po’ vecchiotta che ha paura di non riuscire a trasmettere il suo benessere ai figli. E poi c’è il problema sicurezza e tutte le altre banalità che ripetiamo ogni giorno. Ma il dato di fondo è che siamo di fronte a un cambiamento di popolazione, un problema che ha già interessato tutti i Paesi in cui l’immigrazione è stata un fenomeno di massa".

A sinistra Bruno Manghi

E’ questo cambiamento che crea allarme e preoccupazione tra la gente?

"Sì, però io sono convinto che l’Italia abbia le energie per vivere questo momento di transizione in maniera civile. La nostra, tutto sommato, è una società accogliente. Molto più di altre. La prova generale l’ha fatta con l’emigrazione di massa dal sud al nord: dopo le difficoltà iniziali, in 15-20 anni c’è stata l’integrazione. Insomma, la cosa più importante è che tra vent’anni avremo una popolazione sensibilmente diversa. Ciò crea inevitabilmente ansia e difficoltà, ma è anche una cosa di straordinario interesse".

E in tutto ciò, qual è il compito che spetta alla politica?

"Essa ha un ruolo molto meno importante di quanto si pensi".

La forte affermazione della Lega non è un segnale di involuzione e di chiusura?

"E’ vero, la Lega ha usato parole roboanti, ha anche utilizzato dei sentimenti negativi, però il movimento non ha mai prodotto violenza. E poi più cresce e più diventa responsabile; si avvia, credo, a diventare un partito regionale importante come ce ne sono altri in Europa: dalla Catalogna alla Baviera. In altre parole, la Lega, che è la novità più importante di queste elezioni, non mi crea grandi problemi".

Non è preoccupante il fatto che operai iscritti alla Fim e alla Fiom, tradizionalmente di sinistra, abbiamo votato Lega?

"Che la sinistra avesse il monopolio del voto operaio è una fiaba. Negli ultimi 40 anni abbiamo avuto operai comunisti, socialisti, democristiani, socialdemocratici e perfino repubblicani. Gli operai italiani hanno sempre votato in maniera variegata, come quelli francesi e tedeschi. Solo gli inglesi, fino alla Thatcher, votavano compatti per i laburisti. D’altra parte, già una quindicina di anni fa Ilvo Diamanti, in un magnifico libro sul profilo sociologico della Lega, aveva individuato una presenza operaia tra consiglieri e assessori leghisti".

Barbara Spinelli, in un articolo sul La Stampa, analizza lo spostamento dei poveri da sinistra a destra. E lo attribuisce al fatto che la maggioranza conservatrice si spaccia per perseguitata anche quando ha nelle sue mani tutti i poteri.

"Mi sembra un ragionamento troppo sofisticato. I ceti popolari hanno sempre votato in modo pluralista. Le grandi differenze sono territoriali e non di classe".

Come valuta la scomparsa della sinistra dal Parlamento?

"In Europa la sinistra antagonista oscilla da sempre tra il 4 e il 6%. E’ quella la sua quota, legittima e importante. In Italia la sua immagine è stata scombussolata dall’aver coltivato la protesta, mentre nello stesso tempo era al governo. E poi, poco prima delle elezioni, ha improvvisato una coalizione di culture molto settarie e diverse tra loro. Ma sicuramente l’area della sinistra di protesta c’è e tornerà ad oscillare tra il 4 e il 6% come accade nel resto d’Europa. Non si tratta però di una sinistra di classe, ma di opinione".

Una scomparsa dal Parlamento era comunque imprevedibile. Di chi è la responsabilità?

"Un po’ la colpa è sua e un po’ dipende dalla polarizzazione che rende la vita più difficile a tutti. Il PD, ovviamente, ha insidiato una parte del suo elettorato, poi c’è stata l’astensione…".

Secondo Giulietto Chiesa la sinistra si è appiattita sulla narrazione dominante e si attarda a parlare ancora di sviluppo e di crescita, mentre i problemi sono altri.

"E’ vero, lo sviluppismo è un pensiero troppo diffuso. Ma se uno si presentasse, anche con motivi validi, come non sviluppista, non andrebbe oltre il 2%. Occorre distinguere la sensatezza delle opinioni dal loro successo. Una parte consistente della gente è ancora ferma a un desiderio di sviluppo, poi piano piano capirà i limiti di questa impostazione".

Già, ma i tempi sono stretti: la crisi economica, quella energetica, il disastro ecologico incombono…

"Sono comunque le società del benessere che elaborano modelli di vita più sobri e alternativi, non quelle in difficoltà. E lo si vede in tante aree in cui le persone cercano di vivere diversamente. Ma quella non è politica: è società, cultura. La politica, insomma, fa quello che può. Poco".

Resta comunque il fatto che l’Italia, sul versante dell’attenzione a ciò che sta cambiando nella società e soprattutto sui provvedimenti da prendere, è più indietro di altri Paesi europei.

"Il nostro problema è quello della vivacità della società e non della potenza della politica. E da questo punto di vista, abbiamo vissuto 15-20 anni un po’ mosci".

E cosa dovremo aspettarci per il futuro?

"Non ne ho la minima idea, comunque sono le sfide del mondo quelle che contano e non le nostre finanziarie o il Dpf. La crisi che stiamo vivendo è seria, ma non catastrofica. E in parte è dovuta al fatto che nel pianeta ci sono anche gli altri. E noi non eravamo assolutamente abituati a pensarlo".

Allora dovremo attrezzarci di più per rispondere a queste sfide: le persone emigrano perché nei loro paesi muoiono di fame. E non sarà certo qualche decreto a fermarle.

"E’ evidente. E l’Occidente ha bisogno degli immigrati. E loro lo sanno. Assieme ai lavoratori arrivano poi anche altri di cui non avremmo bisogno. Avviene alla grande. Come del resto è accaduto prima di noi in altre nazioni. Ma, ripeto, il vero grande tema è quello del cambiamento della popolazione".

Ma la Lega non aiuta a capire questi fenomeni. Anzi, costituisce un intralcio evidente.

"Sì, utilizza la paura, l’attaccamento al proprio territorio in maniera emotiva. Ma alla fine, salvo qualche scoop, quando deve amministrare fa come gli altri".

Insomma, a suo parere predica male e razzola bene?

"E’ una cosa che avviene comunemente. Le parole e le frasi che si dicono sono relative al ruolo che occupiamo. Se sono all’opposizione uso delle parole che poi continuo a dire pure quando governo, però i miei atti e i miei comportamenti cambiano. Anche perché la Lega rappresenta sia coloro che hanno paura dell’immigrazione, sia quelli che ne hanno bisogno".

Umberto Bossi

E il sindacato come si pone di fronte a queste problematiche?

"Si è chiusa una fase irripetibile ed eroica: quella nella quale il sindacato ha guidato un grandioso movimento di emancipazione di tutto l’Occidente. Ora si è più istituzionalizzato, arranca rispetto alle trasformazioni, ma resta più necessario che mai. E’ vero, è portato ad essere più attento a coloro che tradizionalmente rappresenta rispetto a quelli che vorrebbe rappresentare ma non sa bene come. Ci sono però anche dei mutamenti interessanti: quasi il 10% degli iscritti attivi al sindacato, per esempio, è rappresentato da extracomunitari".

Saranno la sua nuova linfa?

"Sì, come è avvenuto in altri Paesi. Per l’immigrato l’iscrizione al sindacato è anche un fatto di cittadinanza e non solo di tutela. Nelle sedi sindacali più vive, soprattutto al nord, si incontra un mondo multicolore che era impensabile 15 anni fa".

L’altro problema che spiazza le confederazioni è rappresentato da un precariato sempre più generalizzato. Cosa ne pensa?

"Molto precariato, soprattutto nel terziario, è causato da imprese che stanno sul mercato abbastanza a fatica e in modo un po’ azzardato".

E’ quindi un fenomeno inevitabile, a suo parere?

"Se il precariato è un passaggio di vita che poi finisce, lo accettano tutti. Ma se è una cosa che si ripete e va oltre i 30 anni, allora diventa un allarme sociale, soprattutto per i genitori prima ancora che per i figli".

E ora è diventato un allarme sociale.

"E’ l’esternalizzazione del pubblico impiego che produce una delle quote maggiori di precariato. Parecchie cose per invertire la tendenza si erano cominciate a fare nell’ultimo anno, comunque penso che l’Italia farà in modo di ridurre almeno il tasso di abuso sul precariato. Su questo fenomeno non si può più scherzare. Dopo di che resta il problema: un conto è essere precari dove ci sono tante imprese e un altro è esserlo dove ce ne sono poche. Abbiamo il problema irrisolto di alcune aree del sud che abbattono tutti i dati di media nazionale. E questo non possiamo più permettercelo".