Giovanni Segantini. Della natura
Trenta tra le opere più significative del maestro del divisionismo, in una bella mostra che ne ripercorre il percorso umano ed artistico.
A 150 anni dalla nascita di uno dei maggiori interpreti del divisionismo italiano, Giovanni Segantini, Arco, città natale del maestro, rende omaggio al suo illustre concittadino con una mostra (fino all’11 maggio) che ripercorre la sua intera produzione. Una trentina le significative opere esposte, indissolubilmente legate ai luoghi attraversati nel corso della sua parabola umana ed artistica, dal periodo di formazione a Milano fino agli ultimi anni trascorsi a Maloja, passando attraverso la Brianza e i Grigioni svizzeri. Una mostra davvero riuscita, anche tenuto conto che essa è stata promossa da uno spazio espositivo, la Galleria Civica "Segantini", di recentissima istituzione, in grado comunque di assicurarsi in breve tempo il favore di un folto pubblico.
Giovanni Segantini (1858-1899), dopo un’infanzia non facile ed errabonda a causa dell’abbandono del padre e della prematura scomparsa della madre, frequentò l’Accademia di Belle Arti di Milano, ove, nel 1878, venne premiato per la tela Coro di S. Antonio, il suo primo capolavoro in cui la luce e i suoi contrasti sembrano plasmare la materia pittorica. A questa prima fase, vicina agli esiti della Scapigliatura lombarda, appartengono alcune delle opere esposte, dalle due nature morte con fiori e frutta all’Autoritratto dipinto nel 1879 circa, anno in cui partecipò all’Esposizione Nazionale di Brera. A cambiare le sorti dell’artista non furono però gli studi accademici (in parte svalutati a posteriori dallo stesso artista) bensì l’incontro con Vittore Grubicy De Dragon (il cui fondo archivistico è conservato al Mart), uno dei più importanti mercanti e critici d’arte del tempo, che promosse le sue opere nel panorama artistico internazionale.
E’ in questi anni che la pittura di Segantini, trasferitosi nel frattempo in Brianza con la fedele compagna Bice Bugatti, si concentra quasi esclusivamente su idilli campestri, movimentati da scene di lavoro nei campi e di pastorizia, sullo sfondo di paesaggi agresti avvolti nella bruma ma già rischiarati da una luminosità intensa e diffusa.
Nel 1886 Segantini realizzò, su suggerimento di Grubicy, la sua prima opera con tecnica pienamente divisionista, ottenuta replicando una delle opere più celebri del periodo brianzolo: l’Ave Maria a trasbordo, della quale in mostra è proposto un bozzetto, opera densa di effetti luministici e non di meno atmosferici, caratteristiche che ritroviamo anche nella grande tela che apre il percorso espositivo, La benedizione delle pecore del 1884. Il paesaggio, popolato da figure semplici ma aggraziate nella loro quotidianità, dal 1886 (anno del definitivo trasferimento a Savognino) diventa sempre più terso e bucolico; la luce accarezza le superfici, sottolineando le infinite possibilità della modulazione del colore, steso sulla tela tramite tocchi sfilacciati e accostati gli uni agli altri, densi di materia pittorica e di luminosità, come documenta una delle opere più belle del percorso, Mezzogiorno sulle Alpi (1891), ma anche la pastorella che si abbevera in Costume grigionese (1887).
Nella sua incessante ricerca di verosimiglianza luministica, Segantini aderisce in pieno alla novità incarnata dalla tecnica del colore diviso, come testimoniano le sue stesse parole: "Il mescolare i colori sulla tavolozza è strada che conduce verso il nero; più puri saranno i colori che getteremo sulla tela, meglio condurremmo il nostro dipinto verso la luce, l’aria e la verità". Tale anelito di naturalezza spinge paradossalmente Segantini ad avvicinarsi alle modalità espressive caratteristiche del movimento simbolista, soprattutto negli ultimi anni di attività, quando la rappresentazione della natura tende a caricarsi sempre più di valenze e significati simbolici. L’opera che meglio rappresenta questo passaggio è quella scelta come icona della mostra, La raccolta del fieno, del 1889 ma rielaborata in parte nel 1898, a un anno dalla scomparsa del pittore, colpito da un attacco di peritonite mentre sulle cime dello Schafberg stava mettendo fine all’ultima grande impresa della sua carriera, il panorama dell’Alta Engadina che avrebbe dovuto presentare all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Le nuvole plumbee che si addensano nel cielo che sovrasta la contadina piegata nell’atto di raccogliere il fieno, ricordano quelle dell’opera intitolata La morte, parte integrante dell’ultima fatica del pittore, il celebre Trittico della natura (1898), i cui significati allegorici riecheggiano nell’ultima sala della mostra, dove trova spazio un altro capolavoro, L’amore alla fonte della vita del 1896. La tela, apprezzata anche nell’ambito della secessione viennese, stupisce sia per la vitalità della natura alpina, colta in un meriggio estivo, sia per l’intensa allegoria dell’amore, simbolizzato da una coppia di giovani in abiti diafani, osservati a distanza da un angelo dalle ampie ali.