Io non s(u)ono qui. Bob Dylan a Trento
Soldi pubblici per il cantautore americano?
Vale la pena spendere soldi pubblici per portare a Trento un vecchio cantautore? Questa domanda, apparentemente semplice, apre invece ragionamenti complessi. Nelle lettere ai giornali, nei discorsi ai bar, nei forum, si è messo pesantemente in discussione il cantautore in oggetto, che pur di nome farebbe Bob Dylan.
Facciamo alcune considerazioni sull’artista, per poi passare a parlare dei criteri con cui la politica (questo è il suo compito) prende decisioni per conto nostro, per conto di noi che li abbiamo eletti.
Chi scrive, a partire dal 1992, ha visto nove concerti di Bob Dylan: a Merano, Milano (due volte), Pistoia, Ferrara, Ravenna, Vienna, Villafranca e Brescia. Chi è appassionato di Dylan non ha bisogno di vederselo "portare a casa" per andarlo a sentire. Dylan fa cento concerti all’anno e dal 1991 è venuto in Italia praticamente ogni estate. Chi segue Dylan, inoltre, sa cosa aspettarsi da un suo concerto: non una riproposizione delle canzoni così come le si può sentire nelle incisioni ufficiali, ma una continua creazione e ri-creazione, in diretta, delle tracce musicali su cui il pezzo è costruito. Ogni volta che Dylan canta la stessa canzone la canta in modo diverso. Non esistono due versioni uguali. Cambia il fraseggio, la melodia, cambiano i tempi degli interventi vocali, sempre (sempre) un po’ in anticipo o un po’ in ritardo rispetto al ritmo costruito dagli strumenti.
La cosa può infastidire l’ascoltatore casuale che vorrebbe risentire la "Like a rolling stone" che già conosce, ma è apprezzata dal cultore, che trova motivo di interesse in questa incredibile capacità di variazione e di improvvisazione in un orizzonte musicale sconfinato.
Bob Dylan non è i Deep Purple; non è B. B. King. Non è un mostro sacro spiaggiato. E’ un artista vivo, che ha realizzato intorno ai sessant’anni uno dei più bei dischi della sua carriera ("Time Out of Mind", 1997). Per dirne un’altra, il suo ultimo album, "Modern Times" (2005), è arrivato al numero uno delle classifiche negli USA.
Onestamente, bisogna aggiungere che il suo recente periodo concertistico (da quando, nel 2003, ha smesso la chitarra per suonare per quasi tutto il tempo un piano elettrico) è meno interessante non solo rispetto alle sue grandi tournée degli anni Sessanta e Settanta; i concerti sono più "seduti" e meno creativi anche se paragonati agli ottimi tour del periodo 1993-1997. La sua voce è ancora più ruvida, i toni sempre più parlati: può suonare sicuramente sgradevole se si pretende chiarezza di timbro e grandi estensioni.
Bob Dylan, quindi, arriva a Trento in un periodo molto felice dal punto di vista artistico ("Modern Times", l’autobiografia, il documentario di Scorsese, "Io non sono qui" di Todd Haynes, il suo programma alla radio, mille altri progetti in corso…) ma non così felice dal punto di vista della performance dal vivo.
Arriviamo così alla decisione della Provincia di Trento di finanziare con denari pubblici (al massimo 50.000 euro) un eventuale (e probabile) rosso in bilancio. Questa volontà politica forte di portare a Trento Dylan tradisce un gesto di presunzione provinciale (lo sfizio di farlo suonare nel nostro cortiletto) o un servizio che si fa alla propria cittadinanza?
A favore della scelta, la constatazione che è normale e doveroso che i soldi pubblici finanzino la cultura – non solo le strade, i parchi e le case di riposo. Per valutare l’operato della politica nel campo culturale il cittadino dovrebbe quindi entrare nel merito qualitativo di quello che la Provincia va a pagare: festival cinematografici (il festival della montagna, il Religion Today...), concerti (il jazz, la lirica...), convegni, cori alpini e così via. L’attività di controllo da parte dei cittadini dovrebbe evidenziare quando questi soldi vengono sprecati.
Da dylaniati, ci ha fatto impressione verificare la quasi unanimità di giudizio, le decine di lettere ai giornali contro la venuta di Bob Dylan a Trento. Come se, appunto, ci fosse una sensazione diffusa che i soldi pagati per Dylan siano sprecati.
E’ proprio il finanziamento pubblico a creare un imbarazzo che non dovrebbe proprio esistere: costringe chi ama Dylan a giustificare una spesa pubblica di fronte a chi non la ritiene legittima. Quando, invece, chi ama Dylan ammette che non è un piacere comunicabile: chi vuol goderne può goderne, chi non lo vuole può ovviamente evitarlo.
Dylan, nella sua carriera, ha sempre diviso. Il dylaniato sa che Dylan non è per tutti.
Non lo è oggi e non lo è stato nemmeno nel periodo di massima gloria, gli anni Sessanta, quello glorificato da lettori di giornale che elevano agli altari quel Dylan contro quello di oggi e lo iconizzano del tutto banalmente come profeta di una generazione.
Pur ritenendo dunque meritevole la scelta di portare Dylan a Trento, non possiamo non riscontrare due elementi di forte criticità. Il primo è che il problema del finanziamento si potrebbe potenzialmente proporre di fronte ad ogni singolo rocker invitabile, con qualche soldo pubblico, a suonare in Trentino (a meno che non si voglia considerare Bob Dylan un unicum, e non si vede perché). La Provincia dovrebbe o potrebbe pagare per i Pooh? No di certo. Per i Rolling Stones? Troppo cari. Ma per Paul Simon? Per Neil Young? Preferiamo Lou Reed? La situazione diventa oggettivamente ingestibile. I politici sono eletti dal popolo per decidere del bene pubblico, non per fare i critici musicali.
Il secondo elemento di criticità lascia ancora più dubbiosi. Escludiamo, infatti, che le altre città che ospitano Dylan – nel prossimo giugno: Bergamo e Aosta – contribuiscano con soldi pubblici all’evento.
Si innesta qui la vera domanda di fondo: com’è possibile che in ogni altra provincia d’Italia (compresa Bolzano in cui ha suonato nel 2003) Bob Dylan suoni senza nessun bisogno di aiutini economici – e, anzi, producendo utili a chi lo organizza – e a Trento no?
In Trentino c’è solo il pubblico, in questi ambiti, a correre il rischio d’impresa di un potenziale flop commerciale. Qualcosa non va. Il semi-monopolio e la generosità provinciale hanno creato la ben nota peculiarità trentina nel settore degli spettacoli, con eventi che vengono presentati qui a prezzi improponibili in ogni altro pezzo d’Italia e compagnie teatrali, gruppi musicali, autori che fanno tariffe differenziate, giocando al rialzo, al raddoppiare, al triplicare, quando giungono in terra trentina. Chissà, forse la notizia della nostra generosità si è diffusa, giungendo fino in California, dove abita oggi, quando non è in tour, il buon Bob.
Anche se ci rimangono grossi dubbi su questa peculiarità tutta trentina, possiamo provare a goderci in pace il concerto di Dylan, con la consapevolezza di andare a sentire un concerto difficile.
Se si ama Dylan (anche quello di oggi) si può accettare l’offerta della PAT come un regalo; se lo si apprezza ma si hanno dei dubbi sul suo rendimento attuale, si può pensare di andarlo comunque a sentire (se non altro, è il tipico evento da poter raccontare ai nipotini); se proprio Dylan non lo si sopporta, bene, non è obbligatorio andarlo a vedere. Se si reputa infine intollerabile l’appoggio finanziario al concerto, bisogna pure ammettere che i soldi pubblici, in provincia di Trento, vengono abbondantemente sperperati. Anche nel campo della cultura. Non ci sembra che proprio il concerto di Dylan costituisca lo scandalo principale. Non si può dubitare della grandezza del nome di Bob Dylan, artista scontroso, spesso incomprensibile, dalle scelte spiazzanti, che si propone programmaticamente di impedire ai fan un’identificazione con il suo mito e continua a ribadire: io non sono qui.