Uccidere un lago
La lenta agonia del lago di Valle.
Nel comune di Fornace, in Val di Cembra, si sta consumando ormai da più di trent’anni la lenta agonia del piccolo lago di Valle, colpito da quelli che vorrei definire come gli "effetti collaterali" dell’attività estrattiva del porfido.
Si tratta di un lago formato da uno sbarramento alluvionale che ha come affluente principale il rio Saro, torrente che scende dalla zona estrattiva posta a monte dello specchio d’acqua.
Proprio questo innocuo rigagnolo, in caso di pioggia, si trasforma in un canale di scolo per una buona parte dei numerosi piazzali di cava disseminati sul territorio, portando a destinazione una tale concentrazione di particelle solide in sospensione, da creare l’intorpidimento completo e pressoché permanente del laghetto.
Il fenomeno è ancor più accentuato dall’assenza di sistemi per la raccolta e la depurazione delle acque, nelle aree destinate all’estrazione ed alla lavorazione del porfido; acque che quindi trasportano ogni cosa, dal fango a tutto ciò che viene accidentalmente disperso dai numerosi mezzi meccanici, come gasolio e quant’altro.
Inoltre sono state via via eliminate, per far posto alle cave, molte aree di filtrazione naturale, come per esempio il bosco ed il canneto a nord del lago, che avevano una fondamentale funzione di equilibrio.
Per di più gli esboschi e le infrastrutture legate alle necessità del settore estrattivo, come strade, piazzali, capannoni, hanno reso il terreno sempre più impermeabile ed incapace di trattenere le piogge che ora raggiungono molto rapidamente il fondovalle.
Si tratta, come dicevo, di un problema che viene da lontano, se si pensa che già nel 1972, il professor Francesco Borzaga del Wwf denunciava alla Procura della Repubblica i lavori abusivi per il riempimento e l’innalzamento dell’area umida presente nella parte settentrionale del lago, effettuati per fare spazio ad una ditta di porfido.
A distanza di così tanti anni da quel primo evento in sé magari poco significativo ed importante, (anche perché non certamente unico nel porfido), è oggi a rischio la stessa sopravvivenza dello specchio d’acqua, letteralmente asfissiato dal limo che ne ha cancellato completamente la trasparenza.
Il suo colorito muta infatti a seconda della piovosità del periodo da un innaturale verdognolo al marrone tipico delle pozzanghere di campagna.
Proprio in considerazione della gravità e dell’urgenza della situazione, nelle scorse settimane sempre il prof. Borzaga ha depositato presso la Procura di Trento un nuovo esposto.
Si tratta di una denuncia contro le autorità provinciali e comunali, che a suo dire non avrebbero adempiuto alle prescrizioni imposte già nel 2003 dal Comitato Provinciale per l’Ambiente, per tentare di risolvere il problema.
Nel febbraio di quell’anno infatti, in sede di Valutazione di Impatto Ambientale del nuovo piano di attuazione comunale per l’attività estrattiva, erano state inserite alcune disposizioni con carattere preliminare, tali cioè da condizionare il parere favorevole sulla V.I.A. del piano stesso.
Nel dettaglio le prescrizioni imponevano che ogni autorizzazione per la coltivazione dei singoli lotti dovesse essere subordinata alla presenza di un progetto per il controllo dei sedimenti delle acque superficiali.
In secondo luogo che entro un anno (siamo nel febbraio 2003), dovesse essere depositato un progetto per il ripristino prioritario dell’area a nord del lago (ex cava Paoli); infine che gli interventi previsti da tale progetto di ripristino, si dovessero concretizzare entro i primi tre anni di validità del piano.
E’ utile sottolineare che il Comitato per l’Ambiente, aveva ritenuto il problema del lago così grave, da subordinare alla sua soluzione addirittura la possibilità di continuare con l’attività estrattiva nell’intero comune.
Cosa sia successo in seguito è ben noto; dopo un batti e ribatti tra Comune e Provincia, il piano di attuazione è stato approvato nonostante il fatto che nei quasi quattro anni trascorsi, la situazione sia solo peggiorata.
Circa due anni fa l’Amministrazione comunale di Fornace (allora sindaco era M. Stenico, imprenditore del porfido) aveva presentato un progetto che contemplava, tra le altre cose, l’eliminazione delle strutture adibite alla lavorazione della roccia affacciate sul lago.
Prevedeva inoltre la realizzazione di vasche di decantazione e di una serie di sbarramenti nell’ultimo tratto del rio Saro, allo scopo di creare dei percorsi forzati in grado di permettere la depurazione delle acque prima che queste affluiscano nel bacino.
Questo progetto tuttavia, almeno fino ad oggi, è rimasto sulla carta.
La ditta che operava sulla riva e che molti vorrebbero come unica colpevole nel degrado, è ancora al suo posto e nessuna delle prescrizioni a suo tempo imposte sembra aver avuto un effetto tangibile.
E’ palese che l’azienda in questione debba essere spostata e che debba essere ricostituita in quella stessa area la zona paludosa presente fino ai primi anni Settanta; è però altrettanto evidente che tutto questo è solo una parte del problema.
Il vero nodo è rappresentato infatti dall’organizzazione complessiva dell’area estrattiva che si trova, come detto, proprio sopra il lago. E’ lì che sarebbe necessario intervenire, creando i presupposti perché non vengano trasportati nel bacino tutti i fanghi e gli inquinanti.
Questo approccio era stato prospettato anche dal Comitato per l’Ambiente, che aveva a suo tempo scartato ipotesi come quelle contenute nel progetto di risanamento presentato dal comune di Fornace.
La soluzione auspicata prevedeva piuttosto interventi di regimazione e controllo delle acque e la rinaturalizzazione degli affluenti e delle rive per ricreare la fascia filtrante originaria e vitale per il lago.
In un contesto più generale va considerato che l’attività estrattiva, non solo a Fornace ma in tutta la zona del porfido, è andata avanti praticamente da sempre, salvo qualche rara eccezione, senza grandi regole e vincoli (recentemente anche il Procuratore della Repubblica dott. Dragrone ha parlato di "Far West", proprio in riferimento al settore del porfido).
Con questo orientamento generale, si sono prodotte molte situazioni di pericolo, come per esempio negli anni 80 la frana delle "Grigne" e del "Graon" nel comune di Lona Lases, oppure più recentemente la frana dello "Slavinac", solo per citare quelle che hanno avuto anche una certa eco sulla stampa.
Per la stessa logica si è anche riempita e distrutta irreparabilmente la vasta zona umida che collegava i due laghi di Valle e di Lases e che solo in parte si è potuta preservare con l’istituzione, nel 1987, del biotopo della "palude di Lases".
Questo modus operandi, è stato certamente favorito dal fatto che gli amministratori locali sono stati molto spesso anche titolari di concessioni per cave pubbliche, cioè controllori e controllati allo stesso tempo. Un vero e proprio conflitto di interessi, che pur non essendo previsto dalle norme vigenti, rappresenta tuttavia un fatto anomalo e discutibile se non altro sul piano sostanziale.
Questa modalità di sfruttamento del porfido ha creato un’assuefazione culturale al degrado ambientale e sembra quasi aver cancellato finanche l’idea che ci possa essere un modo diverso di utilizzare questa risorsa, che anteponga magari gli interessi collettivi a quelli dei singoli.
Forse la soluzione del problema del lago di Valle dovrebbe passare proprio per questa strada. Certamente si tratterebbe di un percorso più impegnativo e carico di conseguenze rispetto a quello fin qui percorso, basato invece, di fatto, sulla collettivizzazione dei costi per sanare i danni prodotti.
In definitiva, se non è necessario chiudere le cave per poter far rivivere il lago di Valle, speriamo di non dover attendere che si esauriscano per decidere finalmente che cosa fare quando un lago muore.