La malattia e il ricovero come esperienza di vita
Uno sfondamento del cranio, l’operazione e dieci giorni al Neurochirurgico: storia di sofferenze, amicizie vere, esperienze intense. E ricordi che durano una vita.
Cara Nadia, le tue riflessioni nell’ultimo numero di Questotrentino (Un filo d'aria) mi spingono a scriverti. Per interloquire con le tue parole, come avevi sollecitato aprendo la tua rubrica, anche se poi la cosa non è andata molto avanti.
Intendiamoci, non posso paragonare le mie esperienze ospedaliere alle tue; i miei sono stati incidenti, anche gravi (due serie fratture con gli sci, e uno sfondamento del cranio causa una frana precipitatami addosso in montagna) ma pure, a differenza della tua malattia, non erano frutto di un destino avverso, bensì di miei eccessi di vitalità; o almeno così io li vivevo. La momentanea (speravo) invalidità quindi, come scotto da pagare senza lamentarsi troppo; cosa del tutto diversa dalla malattia che inesorabile ti consuma dentro. Forse più simile al tuo caso è stato un mio ricovero da studente in una casa di cura psichiatrica, a seguito di un lungo esaurimento che non voleva finire; e al varcare quella soglia, ricordo che mi dicevo: "Attento, qui sei a un punto cruciale, devi stringere i denti, devi guarire; altrimenti, affondi".
Eppure, con tutte queste differenze, il punto tra noi comune: il concetto della malattia, del ricovero, come opportunità. Un’esperienza di vita: vita vera anche se dolente, vita piena. Nuovi rapporti, nuove persone, con cui vivevi per dieci giorni, ma che ti rimangono dentro; anche se poi non li vedrai più.
A Verona, al Neurochirurgico, una settimana dopo l’intervento, dopo che mi avevano scoperchiato il cranio per toglierne un sassolino che vi si era infisso. Ricominciavo a camminare, e per la prima volta mi azzardavo a uscire all’aria aperta, "Stai attento – mi avevano detto – non hai energie". Camminai per cento metri nel giardino, e poi mi resi conto di non farcela più: per fortuna c’era una panchina, mi sedetti esausto a riprendere le forze.
Dopo un po’ mi guardai intorno, e vidi la facciata del nostro padiglione: ogni stanza una finestra, noi eravamo al quarto piano, sesta stanza. Quel quadratino – 4F in battaglia navale – uno dei tanti dell’alveare, un punto che da lì sembrava anonimo, insignificante, era il posto dove io e i miei cinque compagni di stanza lottavamo per la vita. Assieme, sostenendoci, rinfrancandoci; ridendo e stringendo i denti; scherzando e scambiandoci il racconto delle nostre vite; e quando uno era piegato dal dolore, da tutti gli altri si sprigionava un’energia, che muta diceva: "Forza, tieni duro, siamo con te".
Aldo era un operaiaccio, 54 anni, la maggior parte dei quali passati ad asfaltare strade, "i miei compagni di lavoro sono tutti già morti": il calore dell’asfalto, che noi non ci immaginiamo, e le esalazioni che bruciano i polmoni. Era arrivato all’ospedale con la qualifica di "cadavere", redatta da frettolosi carabinieri, dopo un incidente stradale, lui in bici preso sotto da una Mercedes ("Quel cane è poi venuto anche a salutarmi". "Aveva torto?" "No, da stupido avevo curvato senza guardare; però, vabbè, uno in Mercedes è sempre uno stronzo... se poi ti prende sotto...". "E’ venuto a trovarti, cosa poteva fare di più?" "Ma sì, in fondo hai ragione").
I bravi medici del Neurochirurgico avevano preso in carico il "cadavere" e gli avevano ridato vita. Ma la memoria era scomparsa. "Tornerà" avevano detto, e ogni giorno lo interrogavano, per vedere cosa ricordava: prima il nome, poi l’indirizzo, poi i parenti, poi via via... E la sua vita ritornava a galla. Vita dura ("Le donne?" "Roba minima. Puttane dell’ultimo livello"). Ma vissuta con grande dignità.
"Aldo, quest’incidente è la tua vincita al Totocalcio: la convalescenza, il rimborso dall’assicurazione... Potrai lasciare l’asfalto da vivo..."
"Penso anch’io, passo diretto alla pensione. E comincio a fare qualche progetto".
Ci volevamo bene.
"Quando esco vengo a trovarti" mi disse il giorno che me ne andai.
"Sì, bene" risposi; ma non gli diedi l’indirizzo. Temevo che rivedendoci fuori, nel mondo normale, la nostra amicizia mostrasse la corda.
Penso di avere proprio sbagliato.
Nel letto a fianco avevo Antonio. Giovane operaio in qualche impresuccia del vicentino, ventidue anni, gran lavoratore, animo semplice; e una passione: le automobili. Con il suo bolide supertruccato era uscito di strada capottandosi più volte e al Neurochirurgico gli avevano rabberciato la testa. Ma non del tutto: tornato a lavorare, era caduto a terra svenuto: "C’è ancora come una bolla nel cervello" mi spiegò, ora gli risolvevano il problema.
Aveva occhi miti, da bravo ragazzo. Mi ispirava sentimenti paterni. Un giorno scoprii il suo tesoro, nascosto sotto il cuscino: tutta una serie di riviste d’automobili, Autosprint, Auto Italiana, L’autoètutto...
"Disgraziato! Per forza poi vai a massacrarti – inveii – Alla tua età devi avere giornali di figa sotto il cuscino!"
Non disse niente, ma vedevo che lo avevo colpito.
Il pomeriggio si affacciò sulla porta Angela, bellissima, i lunghi capelli biondi sciolti sul camice bianco: "Tutto bene?" si informò. "Angela, Angela – proruppe concitato Antonio, levandosi a sedere sul letto – te me fai un bidè?"
Angela non si mosse, e non arrossì. Gli rivolse un sorriso di dolce compatimento. Poi spostò gli occhi, induriti, su di me; uno sguardo insistito, accusatorio.
Alzai le mani a mezz’aria: "D’accordo, d’accordo – parlavo con la bocca, gli occhi e le mani, le palme aperte – Sono stato io. Ma non intendevo in questa maniera".
Fu il giorno dopo che si affacciò sulla porta un frate. Già il prete lo avevamo liquidato in malo modo, io e Aldo in testa; il fraticello aveva un fare guardingo, quasi di soppiatto chiamò, con fare complice, Antonio. Che gli diede del denaro, ricevendo in cambio uno strano involucro. "Cos’è che ti ha rifilato?"
"E’ il Calendario di Frate Indovino" rispose il ragazzo, squadernando con santa innocenza il malloppo. Fu sommerso dalle risate.
Io ero il più implacabile: "Ma per favore! A vent’anni! Frate Indovino! Ma... hai mai sentito parlare di altri calendari...?"
Anche Aldo stava sghignazzando di gusto. "Che dici di un giovane del genere?" provocai.
"E’ fuori di testa – rispose – Io con preti e frati ho chiuso da sempre. Invece ho un’altra cosa, che ti faccio vedere" e con fare complice aprì il cassetto del comodino, estraendone due nanetti dal cappello rosso, che prese in braccio accarezzandoli: "Sono questi che mi proteggono".
Rimasi senza parole: addirittura le superstizioni pagane. "Lasciamo perdere" sussurrai.
Avevo sbagliato. Avevo invaso il campo delle credenze intime.
Il giorno dopo Marco, uno degli infermieri, si mise ad accusarmi (eravamo una comunità: ognuno diceva, apertamente, quello che pensava): "Tu stai rovinando Antonio, lo stai portando fuori strada. Quando era venuto qui era un bravo ragazzo...".
Capii che si riferiva alla vicenda con Angela. "Ma scusa – ribattei – non pensi che farebbe meglio a occuparsi di ragazze, invece che di auto da corsa? Così, magari, evita di tornare qui nel giro di un anno o due". Marco uscì senza ribattere.
Era un bambino, Luca, otto-dieci anni. Minuto, capelli biondi, occhi chiari, un bel visetto; e un tumore al cervello. Un caso complesso, i medici si affaccendavano, avevano già effettuato un paio di operazioni. Lo seguivano con interesse scientifico, dietro al quale mi sembrava di percepire un filo di ansietà. Luca era delizioso: sveglio, allegro, quando stava bene cinguettava come un uccellino, interloquendo con piacere con noi adulti. Quando stava male si accucciava, pigolando piano. Di tanto in tanto rivolgeva qualche sofferta parola al padre, che dolente gli stava al fianco.
Era un carabiniere, il padre. E si vedeva: di fronte a qualsiasi parvenza di autorità – medici, caposala, ma anche infermieri – si irrigidiva, deferente, quasi sull’attenti. Ma qualcosa dentro lui non funzionava: la sua deferenza era del tutto formale, sparlava sempre degli assenti, con astio, con malanimo, di tutti intravedeva il lato negativo, e se non c’era, lo immaginava. Forse qualcosa gli si era rotto dentro. Noi non gliene volevamo. "Oh, figlio mio" sussurrava a Luca, accarezzandolo.
Luca, a tratti soffriva, e tanto. E allora tutti noi nella stanza facevamo silenzio, smettevamo di leggere o ascoltare la radio o qualsiasi altra cosa; e muti gli eravamo, tutti assieme, vicini.
Il decorso di Luca attraversava fasi alterne e situazioni impreviste, anche per i nostri ottimi dottori. "A questo punto mi sembra che la posizione del corpo possa essere una cosa importante – concluse un giorno il dottore responsabile – Dovrebbe tenere la testa costantemente più in alto." Serviva un letto reclinabile, come quelli di ultima generazione. L’infermiere scosse la testa, letti disponibili non ce n’erano più.
Il dottore si rivolse allora a noi, gli altri cinque pazienti della stanza. Era imbarazzato, cercava le parole giuste: "Se qualcuno... se qualcuno volesse... non c’è nessun obbligo sia chiaro, se volesse... magari cedere al bambino il suo letto...".
"Il mio è reclinabile! – proruppi – Va bene, vero?" mi rivolsi ansioso all’infermiere, che confermò. "Ecco fatto, la cosa è risolta."
Il dottore rimase allibito: "Ma allora è vero che siete così uniti..."
"Eh, che sarà mai! Io del letto reclinabile non me ne faccio niente!"
Ma il dottore insisteva: "Eh sì, in una camerata è come essere in trincea: scatta il meccanismo uno per tutti, tutti per uno". Era una gran brava persona, sempre molto umano oltre che competente, lo stimavamo davvero, ricevere da lui dei complimenti mi avrebbe normalmente inorgoglito. Ma in quel momento era solo una voce sullo sfondo, ero impegnato ad organizzare con l’infermiere l’immediato scambio di letti. Luca non doveva perdere neanche trenta secondi del piccolo vantaggio che avevo la fortuna di potergli offrire.
Le urla continuavano, irregolari. Giorno e notte. "BARBARA! Voglio BARBARA!" Era in una stanza neanche tanto vicina, ma l’uomo di fiato ne aveva, e non smetteva: "BARBARA! Che fai tu qui brutta vecchia? – diceva alla moglie – Ma vai via! Vai via! Non voglio te, voglio BARBARA!"
Era ricoverato per un brutto incidente. La lesione gli aveva fatto saltare i freni inibitori; e la sua inconfessabile passione era venuta violentemente a galla. "BARBARA!" Per un paio di notti lo chiusero in una stanza insonorizzata, altrimenti teneva sveglio tutto il reparto.
Tutti, pazienti e infermieri commentavamo. Ed era in corso il toto-Barbara. Chi sarà mai?
Dopo svariati giorni, un sabato sera, Barbara arrivò. Vent’anni, molto bella, capelli neri lunghi, minigonna regolamentare: usciva con gli amici, e prima dell’allegra serata aveva trovato il tempo di passare a salutare il padre. Stette con lui una decina di minuti. "In realtà del padre non gliene frega un fico secco" commentò amaro Marco, l’infermiere.
Forse per la delusione l’uomo – parzialmente – si acquietò. "Barbara!" continuava a dire, ma a voce normale e poi sempre più flebile. Finché le cure non dispiegarono i loro effetti, e il complesso edipico nei confronti della bella figlia ritornò da dove era emerso: sepolto nel fondo dell’inconscio.
Era un bell’uomo, quarantacinque anni, atletico. Iniziava a ristabilirsi, e a passeggiare nei corridoi, dove all’occorrenza cercava di fare il brillante con le infermiere. Con nessun successo: per tutti era "il padre di Barbara". Un po’ patetico, ma di lui non si rideva più.
"La vita a volte è così".
Evitai di incontrarlo, di fraternizzare. Mi sarebbe stato insopportabile parlare pianamente con lui, conoscendo il suo segreto, che teneva nascosto probabilmente anche a se stesso; ma di cui tutti noi sapevamo.
Io avevo un debole per Anna. Piccola, sinuosa, un volto carino, sempre attiva: a diciannove anni era l’infermiera più giovane, e forse ne approfittavano, affidandole i compiti più brigosi, che lei però svolgeva con piacere, lieta di poter darci una mano.
Da vecchio marpione ero stato indeciso. Se flirtare con lei o con la bionda Angela: forse più bella, di sicuro più donna; mentre Anna era più fresca, e sensuale. Tutto si chiarì due giorni dopo l’operazione, quando provarono a rimettermi in piedi. Le due ragazze ai lati, mi aiutarono ad alzarmi e, una a destra, l’altra a sinistra, mi misero in posizione eretta: "Adesso ti lasciamo, se non riesci a reggerti, pensiamo noi a non farti cadere". Fu allora che scelsi: da playboy spelacchiato ma impenitente, decisi di lasciarmi cadere, apposta. A destra, tra le braccia, sul corpo di Anna. Che mi sembrava, nella mia illimitata presunzione, non aspettare altro. Poi, all’ultimissimo istante, un flash mi fece cambiare idea: volevo vedere come stavo, se ce la facevo a rimanere in piedi. Così non caddi: rimanendone contento; e deluso.
Avevo comunque una dolce sensazione: sarebbero stati belli i prossimi giorni, a cercare gli sguardi e i sorrisi della ragazza.
Ne ammiravo l’entusiasmo, la dedizione per il lavoro. Aveva voglia di migliorare, di imparare di più; anche i medici si fermavano a spiegarle quello che facevano. Una sera le chiesi delle sue amicizie, della sua vita fuori dal reparto. "Non è un granché..." rispose. Trovava insulsi i suoi coetanei e i loro passatempi, se paragonati alla ricchezza, all’intensità dei rapporti nell’ospedale.
La nostra era un’intesa basata molto anche sui sensi. Capii la base di verità nel luogo comune della disponibilità sessuale delle infermiere, che non a caso scelgono e svolgono un lavoro talmente basato sul contatto continuo con i corpi, il sangue, la carne.
Il nostro momento magico era nella tarda sera, quando mi praticava l’ultima endovenosa. Una lunghissima preparazione del braccio, con le dita che toccavano, accarezzavano, massaggiavano; poi la penetrazione dell’ago; infine un ancor più lungo, dolcissimo massaggio. Vicinissima, appoggiavo l’avambraccio a bordo del letto, a toccarle di traverso le cosce; e lentamente lo muovevo; lei si faceva più appresso. Avrei voluto che non finisse mai; e durava tanto – dieci minuti? – fino a che mi lasciava, "Buona notte. A domani".
I romanzi dell’Ottocento, quando parlano dell’amore tra il soldato ferito e la fanciulla che lo cura, mi erano sempre sembrate situazioni di maniera, luoghi comuni letterari. E invece no, hanno ragione loro: la vita può riservare anche questo.
Finì in maniera inaspettata e repentina, almeno due giorni prima di quanto previsto. C’erano, improvvise, delle urgenze, e servivano letti per casi gravi. E letti non ce n’erano: è la sanità italiana, drammatica anche nei reparti che funzionano meglio. E se non c’erano, si dovevano trovare, con una serie di dimissioni anticipate.
"Non è giusto!" protestai con il dottore.
"E’ vero; ma garantisco, lei non corre alcun pericolo. E mi dispiace, ma questa è l’unica soluzione".
Che dire? Aveva ragione: dovevo lasciare il posto a qualcuno con la testa a pezzi.
Era mattina, dovevo liberare il letto in un paio di ore. Anna montava alle due, non la potevo rivedere.
Salutai con affetto i cari compagni di camera. Ma non lasciai l’indirizzo. Lo lasciai invece agli infermieri: "Da Verona a Trento è un tiro di schioppo, venite a trovarmi, facciamo una giornata di baldoria sugli sci".
"Ottimo! – risposero entusiasti – Ci organizziamo e una domenica vediamo di venire tutti". Abbracci e pacche sulle spalle, un bacio ad Angela.
Due giorni dopo, da casa, telefonai in reparto. E chiesi di Anna. La salutai, parlammo un po’ e poi: "Passo spesso per Verona – mentii – Potremmo trovarci e uscire assieme".
Un attimo di silenzio, poi: "No – altro silenzio – E’ una questione di principio. Una volta sono uscita con un paziente ed è stata una brutta esperienza".
Balbettai qualche parola e salutai. Ero deluso. E un po’ offeso, anche come categoria: noi cerebro e cranio-lesi siamo dei minorati? Da lei non me lo aspettavo.
Tornai al Neurochirugico due volte, a distanza di mesi, per dei controlli. Entrambe le volte salii in reparto, a lasciare un saluto. Anna non c’era, tutte e due le volte era il turno sbagliato.
E la giornata sugli sci? "Mah, sai, è praticamente impossibile organizzare, con i nostri turni, la domenica è, e non sempre, l’unico giorno libero...".
Fu la seconda volta che Marco mi disse: "Anna mi chiede sempre di venire noi due a Trento: ‘Andiamo a trovarlo’ mi dice".
Il cuore mi si allargò: "Andiamo a trovarlo": e il "lo" sono io. Pur dopo quattro mesi e tanti altri pazienti.
"E allora dài, Marco – lo guardai negli occhi – Vedi di combinare..."
"D’accordo. Vedremo di trovare il modo".
Invece, purtroppo, nessuno si fece vivo. E oggi, oltre alla salute ritrovata, sono questi ricordi quello che mi resta di quei dieci intensi giorni.