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Riforma elettorale fra utopia e realtà

Alessandro Branz

Ha certamente ragione Augusto Barbera quando sostiene che le recenti proposte di riforma elettorale, avanzate dai due schieramenti di centrodestra e di centrosinistra, hanno respinto l’idea di Casini di un ritorno al proporzionale camuffato da sistema tedesco, garantendo con ciò la sopravvivenza del bipolarismo. E questo è un dato indubbiamente positivo.

Bisogna vedere però di quale bipolarismo si tratta: perché sia la bozza Calderoli (sempre in prima fila, nonostante la "porcata" di cui si è reso autore) che quella elaborata dal ministro Chiti rappresentano, per quel che ci è dato sapere, una modifica solo parziale dell’attuale legge, in quanto ripropongono in realtà il medesimo modello, e cioè quel sistema proporzionale corretto da un premio di maggioranza, che accompagna la recente storia istituzionale italiana a partire dalle elezioni regionali degli anni ‘90 (ricordate il famoso Tatarellum?), riemergendo carsicamente nei momenti cruciali a tutela degli interessi partigiani di questa o di quella forza politica.

Infatti, è vero che le due bozze, sulle quali CdL ed Unione sembrano convergere, presentano una serie di correttivi finalizzati a razionalizzare il sistema vigente: ciò vale soprattutto per la bozza Chiti, che appare decisamente più ambiziosa e sistemica, prevedendo alcune interessanti innovazioni, che vanno dalla attribuzione del premio di maggioranza su base nazionale anche al Senato, alla previsione di circoscrizioni elettorali più piccole e quindi di liste bloccate più corte, sino a modifiche di natura costituzionale, come la differenziazione delle funzioni delle due Camere e soprattutto la riduzione del numero dei parlamentari, che, oltre ad essere apprezzabili in sé, si possono rivelare particolarmente incisive anche dal punto di vista del funzionamento del sistema elettorale.

E’ altrettanto vero però che entrambe le proposte presentano alcune rilevanti contraddizioni che rischiano di inficiarne l’attendibilità. Anche se, al di là dei singoli dettagli tecnici, l’aspetto maggiormente criticabile è che l’orientamento delle forze politiche, sia di maggioranza che di opposizione, sembra essere quello di non cambiare veramente il sistema elettorale e di mantenersi all’interno della logica del premio di maggioranza. Che ha due difetti principali (oltre al notevole pregio di garantire il bipolarismo): costringe a dar vita a coalizioni larghe e quindi disomogenee (a prescindere dalla loro maggiore o minore frammentazione) ed irrigidisce il sistema, perché - soprattutto se si prevede (come pare) l’indicazione preventiva del premier - ci si troverà poi costretti a blindare quel premier e quella coalizione, facendo ricorso a meccanismi sanzionatori di natura costituzionale finalizzati a garantire il vincolo di reciproca solidarietà stipulato tra le forze coalizzate.

In realtà la strada maestra - mai presa in seria considerazione in tutti questi anni - sarebbe quella di rinnovare e consolidare il bipolarismo, incentivando la nascita (o l’affermazione) di grandi partiti rappresentativi, coesi, democratici e radicati nella società, anche perché in Europa, sia nei sistemi parlamentari che in quelli semipresidenziali, sono proprio i grandi partiti a garantire non solo la stabilità e l’efficienza dei governi, ma anche l’opportuno equilibrio politico-istituzionale e la necessaria flessibilità.

Peraltro è questo un assunto che, oltre ad essere del tutto evidente (basti pensare a paesi come la Gran Bretagna e la Francia), viene da tempo ribadito dalla migliore dottrina politologica e costituzionalistica, che non a caso ha proposto all’attenzione del legislatore italiano (purtroppo finora inutilmente) due sistemi elettorali particolarmente adatti a tale scopo: il modello spagnolo ed il doppio turno alla francese.

Infatti il primo, sostenuto da Stefano Ceccanti e formalizzato dal sen. Giorgio Tonini in un apposito disegno di legge, pur assicurando un certo pluralismo (soprattutto per le formazioni con forte insediamento regionale), ha il pregio di premiare le forze politiche di più rilevanti dimensioni diffuse uniformemente su tutto il territorio nazionale, con il probabile (ed auspicabile) effetto di incentivare il bipartitismo e consentire al cittadino di scegliere il governo del paese, votando però per un grande partito e non per una coalizione frammentata. Semmai - come osserva Antonio Agosta - si tratta di una soluzione eccessivamente selettiva e penalizzante, mentre vi sarebbe bisogno di favorire il ricomporsi progressivo del sistema politico attorno ad aggregazioni naturali tra partiti affini e famiglie politiche ben definite ed omogenee.

Ma questo potrebbe proprio essere il prodotto dell’introduzione in Italia dell’altro modello qui ricordato, il sistema maggioritario uninominale a doppio turno, che abbiamo già visto positivamente in azione nel passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica francese e che nel nostro paese potrebbe ottenere i risultati sperati, soprattutto se applicato nell’interessante versione proposta in più occasioni da Gianfranco Pasquino (con la facoltà data ai primi quattro candidati di passare al secondo turno). Per di più si tratta di un sistema che, se guardiamo al versante del centrosinistra, darebbe finalmente modo al novello Partito Democratico di radicarsi e temprarsi socialmente attraverso una competizione elettorale degna di questo nome (scongiurando quindi i pericoli della "fusione a freddo"), e favorirebbe nel contempo l’auspicata riorganizzazione di una sinistra socialista, ma "di governo", che potrebbe felicemente coalizzarsi al secondo turno con il PD. Ma purtroppo né Chiti né Salvi sembrano interessati a queste opportunità.

In effetti, nell’attuale quadro politico italiano, proporre il modello spagnolo o quello francese è come parlare del paese delle meraviglie o - per i più raffinati - dell’irraggiungibile regno di Utopia (anche se ogni tanto si riaccende una piccola fiammella di speranza). Tuttavia non c’è da scoraggiarsi: sia perché i veri riformisti non si perdono d’animo e lavorano pazientemente e cocciutamente per cambiare quotidianamente le cose, sia perché il terreno su cui operare esiste. Ad esempio è possibile fare in modo che la bozza Chiti, nonostante i suoi limiti , possa essere migliorata e resa vieppiù operativa, facendo anche leva su quello che è attualmente un potente incentivo a fare meglio e presto: infatti i quesiti referendari, che certamente contengono almeno una rilevante contraddizione (quella per cui, attribuendo il premio di maggioranza alla lista più votata, si rischia di dar vita a listoni onnicomprensivi pronti a sciogliersi dopo le elezioni), hanno tuttavia il merito di indicare con tenacia la via maestra del bipolarismo ed in prospettiva possono stimolare nel paese quel dibattito pubblico che sinora non c’è stato, ponendo finalmente al centro della stagione riformatrice e dell’agenda politica il cittadino-elettore. Come del resto avvenne alcuni anni fa all’inizio di questa lunga transizione.