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QT n. 22, 22 dicembre 2006 Servizi

Adolescenti come spot

Vogliamo capire le ragioni di certicomportamenti giovanili che ci scandalizzano?

Bruno Sanguanini

“Ho fatto lo strip dopo aver bevuto”, dice la sedicenne che ha visto l’immagine del suo corpo senza veli animare il display dei telefonini di tanti coetanei ed adulti. “Cose che sono sempre successe, normali per dei ragazzi”, dicono alcuni coetanei. Un quindicenne scandisce: “Io avrei fatto lo stesso. Non mi sembra una cosa fuori di testa, a 15 anni”. Eppure sono vittima di una incresciosa situazione, dice di sé la ragazza-diva del telefonino.

Quando gli adolescenti escono dall’anonimato e dal bozzolo protettivo della famiglia ne vediamo di tutti i colori. Va bene se è un arcobaleno, simbolo della varietà e complessità della società contemporanea; va male, invece, se dai colori si passa agli onori della cronaca scandalistica o, peggio, della cronaca giudiziaria. Ciò accade ogniqualvolta alcuni sedicenni si organizzano in banda per scippare il telefonino, l’i-pod, l’orologio di marca a un coetaneo; quando costringono un compagno con la carta di credito a una spesa di mille euro per sollevarlo subito dal peso del sacchetto pieno di beni di consumo; tutte le volte che sono scoperti nei locali della scuola impegnati nel rito della canna di gruppo. Va peggio quando la mamma invia la sedicenne a sfilare, se il pedo-pornografo fa l’orco intercettando via Internet la ragazzina pretendendo il pegno di alcune foto hard, quando lo psico-pedagogista tiene una conferenza formativa senza suscitare interesse e dibattito tra i ragazzi e gli insegnanti.

Sin troppo facile è per noi adulti trovare le risposte del tipo “In fondo sono ragazzi!”, “E’ colpa degli amici!” o “Ci sono troppi maniaci in giro”. Difficile è interrogarsi su chi sono gli adolescenti che vivono nel nostro condominio e come gli adulti interagiscono con loro. Troppi genitori amano confondere il figlio unico con la loro immagine giovanile di trent’anni fa. Pochi quelli che sanno darsi delle risposte non standardizzate sulla differenza tra loro e l’adolescente.

A quanto sento dire da molti amici, tanti genitori ignorano “come è” il loro figlio quando è chiuso nella sua camera, è a scuola, è fuori di casa coi coetanei, è impegnato per ore ad auto-formarsi alla comunicazione consumando le nuove tecnologie di cui dispone. Sanno cosa fa, ma non sanno perché fa quel che fa e soprattutto com’è mentre lo fa.

I genitori quaranta-cinquantenni appartengono a generazioni per cui la realtà è sempre di tipo binario: c’è il maschile e il femminile, il familiare e l’estraneo, la casa e la scuola, il privato e il pubblico, il lecito e l’illecito, i valori e i disvalori. Gli adulti sono socializzati dall’alfabeto letterario, dal senso del luogo, dal controllo sociale, dalle regole del lavoro, dalla conquista economica. Vivere vuol dire governare i comportamenti e fare previdenza del domani.

Gli adolescenti metropolitani sono invece alfabetizzati dalle immagini, dal gusto per il viaggio, dai logo, dalla ricerca di visibilità personale, dal gusto dei consumi come esperienza, dall’attesa dell’offerta migliore. Vivere vuol dire fare una performance dopo l’altra; ciò che conta è il presente e l’occasione che si presenta. Guardate i giovani artisti: tanti fanno performance con i multimedia, ma non sanno dire bene né perché né che cosa fanno; fanno e basta, aspettando che qualcuno valorizzi più l’autore che l’opera.

Noi adulti guardiamo alla realtà in maniera lineare, sequenziale, previdenziale. Per i giovanissimi, invece, la realtà è a multi-piani, sincretica, a frammenti, ibrida: è come il caleidoscopio ricevuto in dono da bambini o come il mondo nei disegni paradossali di Escher. Non sono memori né della cultura societaria dei loro genitori né della cultura materiale dei nonni: condividono una realtà informazionale in cui, peraltro, vivono a fatica.

L’i-pod appeso al collo, gli auricolari sempre alloggiati nelle orecchie, il telefonino sempre acceso in mano, ogni pezzo di abbigliamento con la marca del cuore, non sono oggetti, ma un territorio di identificazione ed appartenenza. Per comprendere queste novità dobbiamo smetterla, noi adulti, di dire che i media influiscono su di noi a seconda di come li usiamo; gli oggetti comunicativi sono ormai talmente configurativi del nostro sé da ingenerare commistione, ibridismo, una tecno-umanità.

La scuola, peraltro, insegna poco o nulla a governare la cultura multimediale. Dalle elementari all’università, i giovani non incontrano un laboratorio per la didattica interattiva che insegni a interagire e a comunicare con i multimedia. Non c’è un insegnante o un corso che parli con cognizione empirica di televisione, Internet, videogames, telefonino, i-pod, blog; non ci sono libri di testo multimediali. Anche le facoltà universitarie di scienze della formazione presentano tale povertà. Allora, non meravigliamoci se taluni quindici-diciottenni non distinguono tra un gioco alle belle figurine e un video hard-core su Internet, tra la festicciola alcolica e lo studio pornografico in erba.

I quindicenni di oggi sono cresciuti guardando i reality TV, accoccolati sul divano vicino alla mamma. A loro poco importa distinguere fra persona e personaggio. Hanno imparato che un posto elevato nella società si conquista non nei tempi lunghi, col minuto sacrificio e le risorse di partenza, bensì con il bello della diretta, l’occasione che non capita a tutti, l’essere protagonisti della situazione.

Badiamo a come parlano i quindicenni: non processano il pensiero ed il linguaggio costruendo una frase dopo l’altra. Quando scrivono non descrivono il fenomeno con un capoverso di almeno tre frasi. La parola come la scrittura non è altro che uno schizzo, un gesto, un’illuminazione. Tutta la vita quotidiana è ricondotta ad una situazione dopo l’altra. Il piacere del dialogo, tanto caro ai nonni che leggono giornali e romanzi, è tradotto in gusto per la performance.

Gli adolescenti che vivono con noi sono più simili di quanto crediamo alle immagini dei coetanei che troviamo nei video musicali, nelle interviste sui fuochi nelle banlieues francesi, nella pubblicità su carta patinata, nei settimanali per ragazzine. Non sono i ragazzi da fotoromanzo della nonna o da telequiz della mamma, bensì dei giovani che crescono abitando i diversi luoghi: a casa, a scuola, dentro i mass media, in Internet, a cavallo del cellulare. Per tanti il territorio non è solo il paesaggio materiale: ma uno, due, tre, dieci territori di società. Nasce così in loro un senso di “umanità-spot” con cui sarebbe ora che gli adulti cominciassero a fare i conti.

Che cos’è uno spot? Tradurre il termine inglese con l’aggettivo “istantaneo” è riduttivo. Spot è chiamato un segno, un punto localizzato, uno spazio pubblicitario, un fatto istantaneo, un’indicazione, ma anche una macchia all’interno di qualcosa di omogeneo. A teatro, c’è uno spot quando un faro elettrico proietta un fascio di luce particolarmente concentrato che delimita con un cerchio luminoso uno spazio ristretto del palcoscenico. Nel mondo delle automobili da corsa è la sorgente luminosa che sovrasta il cruscotto di guida e permette di leggere una mappa. In pubblicità è l’unità più ricorrente di messaggio. Nel linguaggio corrente è il nome del piccolo faro di luce comunemente usato nell’arredamento d’interni.

In inglese spot ha una molteplicità di significati: punto, luogo, segno, piccola quantità, ecc. Il verbo to spot fornisce dei significati più suggestivi: distinguere, schizzare, punteggiare, localizzare, accordare un favore o un vantaggio; una forma di “evidenza” che consegue a un qualche tipo di azione.

Jacob Moreno, teorico dello psicodramma e del sociodramma, chiama “on the spot” l’azione di tipo auto-terapeutico che avviene immediatamente, nel momento più opportuno, nel luogo più adatto. Comporta l’attivazione di un processo in cui l’attore è protagonista di gesti e movimenti in relazione a un partner. Tale processo riguarda sia l’individuo che il gruppo. E’ una tecnica che porta a esercitare un controllo sul contesto, sulla situazione, sull’interazione umana.

Per i giovanissimi l’interazione con il telefonino o via Internet è “come se” fosse uno spot. E’ basata su un’incontro; è una comunicazione e al contempo una forma di organizzazione. E’ ciò che spinge a compiere l’opera di montaggio: ma, contemporaneamente, è l’unità di misura del lavoro di montaggio. Con lo spot si fa il gruppo. A che scopo? Per sceneggiare il senso dell’esistenza nella vita quotidiana. Maneggiando suoni e immagini come se fossero delle informazioni, i giovani fanno sì che i segni espressivi assumano la consistenza delle cose.

Allora, cosa possono fare gli adulti? Anzitutto chiedere agli scienziati sociali che tornino a fare “inchiesta sociale”, a sporcarsi le mani con le persone e non soltanto con le statistiche. L’epoca del “fare società” è ormai tramontata. Ora, c’è necessità di “comunicare la società”, se si vuole che il senso del “sociale” torni ad essere un valore anche per gli adolescenti. Nell’epoca della globalizzazione le società occidentali si vanno restringendo verso il centro, un po’ come nel tardo feudalesimo. I giovani, non trovando più spazi aperti e frontiere, cercano rifugio nella mobilità, nella simulazione. Fanno più o meno come i giornalisti in erba quando eventizzano come spettacolo la cronaca sugli adolescenti.

Da trent’anni le correnti scientifiche del costruttivismo, del cognitivismo, del riflessivismo, ignorano questo cambiamento radicale. Hanno mostrato delle belle idee, ma anche la vernice della punta delle scarpe. Non hanno capito che più che liquida la società è rappresentata come se fosse sempre più a frammenti, è un puzzle senza cornice e figura: è un software, è Windows e Open Source, insieme. Davanti a una politica sempre meno progettuale e sempre più a forma di performance, a un’economia che produce più finanza che capitale sociale, alle arti che confondono lo spettacolo col dialogo, non meravigliamoci se per tanti adolescenti l’interazione umana non è che (quasi) uno spot.

Parliamone, anche davanti al presepe di Natale. Non per fare il “grillo parlante” di Collodi o il “corvo nero” di Pasolini, come spesso amiamo fare davanti agli adolescenti. Bensì per fare qualcosa di cuore e di intelligenza: con gli adolescenti dobbiamo riportare il senno umanistico dalla Luna alla Terra.