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A che servono i musei?

I musei e la didattica della storia.

Nel giorno di un’infausta ricorrenza storica (11 settembre) si è svolto a Rovereto, presso la sala della Filarmonica, il convegno "Incontrare la storia nel Museo", dedicato a "Riflessioni sulle esperienze didattiche nei musei storici italiani". Al tavolo dei relatori si sono alternati, oltre a Camillo Zadra, provveditore del Museo della Guerra di Rovereto, e ad Anna Pisetti, responsabile della sezione didattica della medesima istituzione, diversi altri docenti, conservatori museali, responsabili didattici legati a musei e istituzioni di Pavia, Vicenza, Vittorio Veneto, Bologna, Alessandria, Castel Tirolo, Bergamo, Torino e Trento. Da più lontano, da Bari, è stato invitato a dire la sua il prof. Antonio Brusa, docente di didattica della storia presso l’Università di Bari e la SILSIS di Pavia, che abbiamo avuto il piacere di intervistare.

Musei storici, musei della Resistenza e affini. Di cosa stiamo parlando?

"L’Italia è piena di musei e di passati che da soli conquistano le prime pagine e milioni di turisti. Nella loro ombra crescono decine e decine di piccoli musei. Non hanno sicuramente le meraviglie dei primi, ma, come spesso succede in Italia, hanno visto formarsi, negli ultimi tre decenni una generazione di persone, che vi lavorano, brave e che ci credono. Secondo me, fanno una bella differenza".

Che cosa vi siete detti?

"Il tema centrale è stato quello della didattica e dei rapporti con le scuole. Da una parte si è cercato di fare un bilancio delle esperienze (appunto gli ultimi trent’anni); dall’altra parte si è cercato di capire da che parte andare".

Il bilancio dell’incontro?

"Direi che la parte migliore e più significativa delle esperienze nasce dal rapporto stretto che gli operatori hanno saputo stringere con la parte più qualificata e battagliera della scuola, quella che negli ultimi decenni ha lottato (strenuamente e spesso nell’ombra più fitta) per cercare nuove strade, più efficaci e coinvolgenti, per attrarre gli allievi nel mondo della cultura. Frutto di questa stagione di lavoro è una nutrita serie di laboratori e di percorsi strutturati in vario modo, che permettono ad un professore che ne abbia voglia di inserire facilmente una visita al museo storico nella sua programmazione di storia. Se si fa una piccola indagine, si scopre che moltissime città del centro-nord possono già godere di questa possibilità. E’ una rivoluzione, secondo me: sia rispetto al passato, sia rispetto alla pratica (ahimé comune, soprattutto per i grandi musei) della visita collettiva, di massa e ritualizzata".

Quali sono gli scenari futuri?

"Credo che il passato ci consegni due strade, aperte e percorribili. Una prima, nella quale le strategie tipiche della divulgazione possono avvalersi degli strumenti più sofisticati della tecnologia e della retorica mass-mediale (da non condannare a priori, ma da utilizzare bene e con saggezza); l’altra quella della problematizzazione, nella quale i musei storici possono giocare un ruolo straordinario. Essi possono diventare il luogo dove si impara a problematizzare il presente e il passato più recente, con i suoi retaggi e le sue angosce sempre aperte: il rapporto con gli altri, la violenza, la contesa identitaria, l’apertura al mondo. Insomma, tutto fuorché la piccola celebrazione locale: ma questo è il segno di una grande trasformazione, compiuta senza tante fanfare, ma della quale i partecipanti a questo convegno possono essere molto orgogliosi".