“Dio sulle labbra dell’uomo”
Piergiorgio Cattani, Dio sulle labbra dell’uomo. Paolo De Benedetti e la domanda incessante. Trento, Il Margine, pp. 208, 13.
Il primo impulso che mi viene dalla lettura di "Dio sulle labbra dell’uomo – Paolo De Benedetti e la domanda incessante", l’ultima preziosa fatica di Piergiorgio Cattani edito dall’editrice "Il Margine", è un senso di gratitudine per l’autore di un libro che permette a chi conosce Paolo De Benedetti per averlo frequentato di realizzare una specie di felice ripasso di quanto ha appreso dalla sua viva voce e, a chi non abbia avuto modo di conoscerlo e di frequentarne le lezioni, di accostarsi al suo pensiero e di apprenderne i punti salienti.
Ma per la diligente recensione di un libro è d’uopo esporne succintamente il contenuto per indurre altri ad accostarsi all’opera per una lettura completa. Vediamo di percorrere quantomeno l’indice dei capitoli.
Dopo una prefazione di Massimo Giuliani, esperto di ebraismo, che riconosce all’autore il merito di farci "entrare nell’universo di senso del discorso debenedettiano in punta di piedi quasi per non disturbare, per scoprire passo dopo passo, pagina dopo pagina, che quell’universo è in realtà a ‘immagine e somiglianza’ delle fonti che lo hanno generato"…, una breve premessa introduce il lettore al primo capitolo dal titolo: "L’ascolto e la Scrittura". E qui si rivela subito la doppia appartenenza di Paolo De Benedetti, giudeo/cristiana, una preziosità che, se fatta propria (ovviamente per via del riconoscimento di una derivazione genetica puramente spirituale) dai cristiani di oggi e dalla Chiesa, permetterebbe di ricuperare quel patrimonio della primitiva comunità evangelica a cui appartenevano Gesù, la sua famiglia e gli apostoli, patrimonio in gran parte perduto con la distruzione di Gerusalemme, la dispersione del popolo ebreo e la successiva egemonia delle comunità cristiane provenienti dalle genti pagane. "A chi mi chiede se sono ebreo o cristiano – dice ironicamente De Benedetti – io rispondo: secondo i giorni". Ed è noto – chiosa Cattani - quanto l’ironia sia presente nella tradizione ebraica, un’ironia che serve per desacralizzare il mondo e che s’innesta in quella libertà di parola che l’uomo biblico ha sempre avuto anche nei confronti di Dio. Ciò vale - o forse meglio varrebbe mi sembra di poter dire pensando a molti uomini di Chiesa – "ancor più nei riguardi di chi vuole parlare per conto di Dio".
"Shema’ Israel!" (Ascolta Israele!) è l’inizio della preghiera del buon israelita che ricorda la necessità dell’ascolto del Dio che chiama "mentre l’uomo odierno – scrive, citato, De Benedetti – sa parlare fino al logorio delle parole, ma non sa e non tollera l’ascolto, che è la libertà del parlare altrui": un ascolto premessa all’agire che segna il primato dell’ortoprassi - "che cosa Dio vuole che io faccia" - rispetto all’ortodossia come "ricerca meramente intellettuale di che cosa sia la verità". Un capitolo questo che richiama, alla mente di chi scrive questa recensione, il vecchio ebreo malfermo sulle gambe raccontato da Etty Hillesum, che si avvia faticosamente verso il carro piombato che lo porterà ad Auschwitz recitando appunto lo Shema’ Israel.
Il secondo capitolo ci porta ne "L’interpretazione infinita", come "domanda incessante" o come "il settantunesimo senso", che è anche il titolo del numero monografico (il n° 1 del 2006) della rivista Humanitas dedicato anche questo come omaggio a Paolo De Benedetti.
L’inesauribilità della parola di Dio non solo permette ma invita tutti coloro che vi si accostano a cercarne un proprio significato, non in termini di soggettività individuale, ma in quanto "ogni individuo è stato chiamato all’esistenza per arrivare a un frammento di verità, attraverso un indispensabile e infinto confronto con le riflessioni raggiunte dalle altre persone in ricerca". E questo senza sentirsi mai dei possessori della verità, in quanto essa sta sempre davanti a noi per stimolarci a inseguirla, a cercarla senza posa (magari a "farla" – come esorta san Paolo col suo "veritatem facientes in caritate", a essere cioè coloro che "fanno la verità nell’amore" e, perché no?, che fanno l’amore nella verità come l’uomo e la donna del Cantico dei Cantici così felicemente letto da Paolo De Benedetti in un suo saggio indimenticabile proposto a Trento per la prima volta in forma di conferenza).
Il terzo capitolo s’intitola: "Quale Dio?" – con tanto di punto di domanda.
La Shoà come "rivelazione negativa" e punto di non ritorno "muta radicalmente la tradizionale immagine di Dio e cancella ogni facile e consolatoria giustificazione del male", mettendo in discussione Dio stesso e la sua azione nella storia. Incombe il mistero del male, che, in un’eventuale discussione con De Benedetti, preferirei chiamare il mysterium iniquitatis, locuzione che mi sembra adombrare meglio gli aspetti di responsabilità sia umana che divina per le iniquità del mondo e della storia. Solo "al diavolo infatti preme sommamente che Dio sia difeso dalla teodicea nella sua onnipotenza, nella sua bontà infinita, nella sua saggezza, nel suo saper trasformare il male in bene; un tale Dio ha il potere di mettere in crisi la fede di molti", ecco perché piace al diavolo. L’ateismo ha una sua consistenza assai maggiore e una dignità che la fede in un dio tappabuchi non raggiunge. Per credere in Dio bisogna litigarci, bisogna aiutarlo, difenderlo, custodirlo nella profondità dell’anima e scoprirlo all’interno della pienezza della vita e della festa - come dicevano e facevano Dietrich Bonhöffer dal carcere di Tegel in attesa del processo che lo avrebbe portato alla morte e Etty Hillesum in attesa di finire ad Auschwitz: i due testimoni e vittime della persecuzione nazista più volte richiamati nel libro.
Il quarto capitolo, "La chiesa e la sinagoga", è introdotto da una citazione del cardinal Martini che dice: "La Chiesa, ciascuno di noi, le nostre comunità non possono capirsi né definirsi se non in relazione alle radici sante della nostra fede e quindi al significato del popolo ebraico nella storia, alla sua missione e alla sua chiamata permanente".
Ma la storia del rapporto dei cristiani con gli ebrei è una storia dolorosa. Piero Stefani la ripercorre in un libro recente edito da Laterza dal titolo: "L’antigiudaismo – storia di un’idea". E possiamo ben dire che senza la Shoà questa storia non avrebbe avuto quella svolta che papa Giovanni, il concilio Vaticano II°, recenti autorevoli documenti ecclesiali hanno contribuito a realizzare e che portano alle parole citate del cardinal Martini con tutto quel che ne consegue.
Ma la Chiesa – tutta la Chiesa - dalla sinagoga potrebbe anche attingere quella centralità dell’ascolto della Parola di Dio per farsi da essa sorprendere, farsi provocare, lasciarsi arricchire da nuove domande e da nuove interpretazioni e magari per farsi aiutare a discernere quando essa è tramite verso il regno e quando essa è ostacolo su questo cammino.
L’ultimo capitolo, "La riflessione sugli animali", propone un’inedita domanda sul perché della sofferenza e della morte e sull’attesa della salvezza promessa, per proiettarsi verso un’escatologia dove la garanzia della vittoria finale di Dio sulla morte è data dalla certezza di una fede cosmica che niente di ciò che Dio ha creato nemmeno un moscerino è destinato a ritornare nel nulla, perché "ogni vita ha in sé un valore infinito".
Dopo aver passato in rassegna i capitoli del libro cogliendone alcuni spunti peraltro insufficienti rispetto alla ricchezza delle proposte, mi auguro solo di aver stimolato la curiosità di molti a leggerlo per intero per inserirsi felicemente nelle dinamiche feconde di questa "domanda incessante".