Una Costituzione da rivedere. Ma come?
Referendum: le ragioni del No e del Sì in due interviste al costituzionalista prof. Andrea Morrone a ad Ettore Zampiccoli (Forza Italia).
Il 25 e 26 giugno saremo chiamati ad esprimere il nostro giudizio sulla riforma costituzionale approvata dal governo Berlusconi nella scorsa legislatura. Se la riforma venisse confermata, a partire dal 2011 e dal 2016 verrebbero introdotte numerose modifiche che riscriverebbero la forma di governo, il bicameralismo, la forma di stato, le garanzie. Analizziamo di seguito i principali effetti che la conferma delle modifiche alla Costituzione comporterebbe, per poi ascoltare gli argomenti di Andrea Morrone, costituzionalista dell’Università di Bologna e sostenitore del "No"; e di Ettore Zampiccoli, coordinatore provinciale di Forza Italia, sostenitore del sì.
Con la riforma, il governo parlamentare verrebbe trasformato nel così detto premierato, un modello di governo sostanzialmente affidato alla sola responsabilità del primo ministro. Nominato dal Presidente della Repubblica sulla base delle elezioni politiche, il premier avrebbe potere di nomina e di revoca dei ministri, e sarebbe legato dal rapporto fiduciario solo con la Camera dei deputati, poiché il Parlamento sarebbe modificato sia nella struttura che nelle sue funzioni. Non si avrebbero più infatti due camere che fanno le stesse cose, ma una Camera bassa che concorre col premier a delineare l’indirizzo politico, e una Camera alta che diventerebbe un "senato federale". Questo cambiamento comporterebbe che il procedimento di formazione della legge statale da unitario diverrebbe tripartito: avremmo quindi leggi approvate in via definitiva solo dalla Camera (nelle materie di competenza dello Stato), solo dal Senato (nelle materie regionali), o con il consenso di entrambe (leggi bicamerali, come le leggi elettorali).
La forma di stato, dopo la riforma del centrosinistra del 2001, cambierebbe ancora con la così detta devolution, ossia il trasferimento di competenze esclusive alle regioni per l’organizzazione e l’assistenza sanitaria, l’organizzazione scolastica e i programmi scolastici di interesse regionale, la polizia amministrativa regionale e locale.
Alla devolution farebbe da contraltare, però, il rafforzamento dello Stato attraverso la ristatalizzazione di competenze regionalizzate degli elenchi di materie modificati dalla maggioranza di centro sinistra nel 2001 (l’energia, le grandi reti di trasporto, la comunicazione), nonché la reintroduzione dell’interesse nazionale come presupposto per annullare, su proposta del governo e dietro decisione del Parlamento eseguita dal Presidente della Repubblica, leggi regionali lesive delle politiche nazionali. Per spirito municipalista si consentirebbe invece a Comuni e Province di ricorrere alla Corte costituzionale per difendere le funzioni attribuite. Alle Regioni poi, attraverso il Senato federale, si permetterebbe la nomina di quattro dei sette giudici costituzionali eletti dal Parlamento (che vedrebbe ampliate le sue nomine, a spese di quelle spettanti al capo dello Stato).
Professor Morrone, quali sono secondo lei i rischi principali che questa riforma porta con sé?
"La riforma costituzionale, nonostante gli slogan, non risolve nessuno dei problemi emersi nella transizione. Due erano le questioni da affrontare. Primo, rafforzare il processo di governo secondo i modelli di una democrazia dell’alternanza nella quale, sulla base della scelta popolare dell’indirizzo politico, esiste una dialettica tra maggioranza e opposizione con specifiche garanzie di governabilità e di controllo (questo era in nuce il senso dei referendum elettorali del 1991 e del 1993). Secondo, realizzare un effettivo Stato regionale, nel quale conciliare in modo equilibrato autonomia territoriale e unità repubblicana.
Il premierato disegnato nella riforma non realizza né un ‘premier forte’ (come vorrebbero dalle parti del centrodestra) né un ‘premier assoluto’ (come dicono nel centrosinistra), ma solo un premier debole. Infatti, pur disponendo di poteri di indirizzo, come la formazione del governo e lo scioglimento della Camera dei deputati, il premier può essere facilmente destituito dalla sua stessa maggioranza, o attraverso una mozione di sfiducia costruttiva o attraverso una mozione con la quale si chiede di continuare a realizzare il programma di governo. In entrambi i casi, però, si cambia premier ma senza passare nuovamente per il voto popolare e, quindi, rompendo il continuum ‘popolo-maggioranza parlamentare-primo ministro’ con pratiche consociative o partitocratiche.
La devolution, il Senato federale e l’interesse nazionale, anziché correggere la sgangherata riforma di centrosinistra del 2001 sia sul piano delle competenze sia su quello, assolutamente irrinunciabile, della partecipazione delle Regioni ai processi di decisione della politica nazionale, innescheranno una reazione a catena che farà esplodere innumerevoli e gravi conflitti.
Nelle materie devolute, infatti, tanto le Regioni quanto lo Stato hanno competenze esclusive, sicché non si saprà chi decide. Il senato poi non è affatto ‘federale’, perché anziché rappresentare le Regioni o attraverso i presidenti delle giunte come in Germania o mediante senatori espressi dalle comunità regionali come negli USA, è composto di senatori eletti a suffragio universale e diretto, senza legame con il territorio, selezionati come tutti i parlamentari dalle segreterie dei partiti. Siccome il Senato federale ha il diritto di dire l’ultima parola nei procedimenti legislativi su materie regionali, egli può, senza potere essere chiamato a risponderne, bloccare importanti politiche di governo di segno diverso. Quindi un disegno che non crea i presupposti per una dialettica democratica, ma che infiamma conflitti, rendendo impossibile sapere chi fa che cosa e evanescente il principio di responsabilità".
Crede esistano comunque, sia pure in un insieme non condivisibile, dei pregi che tale riforma introdurrebbe?
"A parte la proposta, molto popolare, della riduzione del numero dei parlamentari non vedo pregi, neppure assumendo che molte disposizioni entreranno in vigore solo a partire dal 2011 e dal 2016. Non sono tra quelli che preferiscono dire ‘meglio questo che niente’, proprio perché non auguro al mio Paese nuove regole che non abbiano, come dovrebbero avere le norme giuridiche, la funzione di razionalizzare l’esistente e migliorare la vita dei cittadini".
Lei è, insieme al prof. Augusto Barbera, al prof. Ceccanti e a numerose altre personalità, firmatario di un appello per l’apertura di un tavolo per la riforma costituzionale da aprirsi subito dopo il referendum. Non crede che questa posizione porti a ritenere che votare sì o no sia indifferente?
"Niente affatto. In un contesto in cui si contendono il campo coloro che votando sì dicono che finalmente l’Italia avrà nuove istituzioni e coloro che votando no pretendono di salvare la Costituzione da qualsiasi modifica, dire ‘No per una riforma diversa’ significa dire due volte no. No a questa riforma sgangherata, e no a qualsivoglia tentativo di cristallizzare le norme costituzionali vigenti dimenticando le emergenze che attanagliano il paese. Se vincessero i sì sarebbe estremamente improbabile che i vincitori vogliano sedersi a un tavolo per correggere ciò che il popolo ha approvato, proprio perché ci sarà già un nuovo ordinamento costituzionale. E se vincessero i no al grido di battaglia ‘Salviamo la costituzione’, oltre ad accantonare per sempre quel testo di riforma, si sarebbe portati a leggere il voto popolare anche in positivo, nel senso di attribuire al no il valore di un sì alla Costituzione vigente. Il referendum oppositivo diventerebbe così un inammissibile referendum propositivo".
Si è ricominciato a parlare, ancor prima del referendum, di riforma costituzionale. E’ davvero una necessità improrogabile quella di metter mano alla Carta, oppure si tratta dell’ennesimo tentativo di protagonismo politico?
"La questione va posta diversamente. Che l’Italia abbia bisogno di riforme in tanti settori della vita sociale, economica e istituzionale credo sia difficile da negare. La crisi economica e sociale, per citare il caso più evidente, dipende soprattutto dall’assenza di una classe dirigente che sia degna di questo nome, che sappia farsi carico dei bisogni traducendoli in politiche di governo credibili e responsabili. L’invisibilità del potere, la confusione dei ruoli, la gestione partitocratica della cosa pubblica rendono del tutto inadeguato il nostro modello istituzionale. Il punto è che cosa fare e come. Un sistema politico non avrebbe bisogno di ricorrere a riforme costituzionali se fosse in grado di adeguare costantemente i valori fondamentali alle nuove esigenze della realtà, come dimostra bene l’esperienza costituzionale statunitense. Nel nostro caso la forza del diritto è necessaria, proprio per trasformare una politica incapace di autoriformarsi. Ma, ecco il punto: non tutto ciò che occorre scrivere attraverso nuove regole riguarda la Costituzione. Molto, infatti, può essere fatto attraverso lo strumento della legge ordinaria. La Costituzione può limitarsi a dettare le regole per un premierato responsabile e una seconda camera delle regioni. Per il resto occorre fare leggi normali, ad esempio, in materia di conflitti di interessi, tutela delle nuove libertà, distribuzione delle risorse finanziarie tra stato e regioni, garanzia dell’opposizione, ecc.".
Pensa che attualmente ci siano i margini per un dibattito serio sulla possibilità di riforma costituzionale?
"Nei termini di un disegno di riforma che abbia il senso delle cose e, soprattutto, della misura, credo che si possa sperare di avviare, ma solo dopo la vittoria del no, un percorso riformista. Il presupposto, però, è politico. La prima necessità è che si abbandoni il muro contro muro e si avvii un dialogo costruttivo tra tutte le parti politiche, come invita a fare, del resto, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fin dal discorso di insediamento. Anche per questo voterò un ‘no per’".
Passiamo ora a sentire un sostenitore del sì. Ci risponde il coordinatore provinciale di Forza Italia Ettore Zampiccoli.
Dottor Zampiccoli, quali sono secondo lei i punti di forza di questa riforma?
"Il mio naturalmente più che un discorso giuridico è un discorso politico. Credo infatti che i principali aspetti positivi di questa riforma ruotino attorno a concetti come ‘modernizzazione’ e ‘ringiovanimento’. Dico questo perché siamo di fronte ad un’Italia molto diversa da quella di sessant’anni fa, ed è giusto prenderne atto. Con questa riforma infatti le Regioni saranno più coinvolte nel processo politico e decisionale, avranno competenze più ampie e più specificate e potranno gestire direttamente ed in modo più efficace le loro risorse. Avremo poi finalmente, accanto alla riduzione del numero dei parlamentari, un bicameralismo perfetto che permetterà ai cittadini di scegliere direttamente il premier, premier che potrà essere sfiduciato attraverso chiare procedure. Direi, più in generale, che proprio questa marcata chiarezza dei ruoli e degli strumenti politici e giuridici è uno degli aspetti più positivi che la riforma porta con se.
Accanto a questi effetti positivi, ci sono secondo lei difetti o aspetti che non la convincono fino in fondo?
"Nell’ambito del così detto federalismo ci sono dei margini che, a mio parere, vanno chiariti per non creare indecisioni e conflitti. E’ necessario, in altre parole, specificare bene chi fa cosa e come. E’ poi assolutamente fondamentale stabilire una sorta di solidarietà nazionale dove le Regioni più ricche e più competenti, magari perché autonome da più tempo, sostengano quelle più povere e meno abituare a gestirsi".
La sua coalizione, a livello nazionale propone di votare sì e di aprire subito dopo un tavolo di trattative che porti ad una modifica più condivisa. Lei condivide questa impostazione?
"Devo ammettere che questa proposta, avanzata in effetti specularmente da entrambi gli schieramenti, mi ha positivamente meravigliato. La richiesta avanzata sia dalla maggioranza che dall’opposizione di un tavolo a cui sedersi per raggiungere decisioni condivise mi pare da un lato il sintomo che il clima della campagna elettorale è finalmente finito e che gli schieramenti si avvicinano a posizioni più moderate, dall’altro che il ringiovanimento a cui facevo riferimento prima è una necessità che tutto il Paese condivide".
Non crede che questa linea porti a pensare che votare sì o no sia in definitiva indifferente?
"Non credo proprio, mi pare sia solo il segno di una positiva disponibilità che può meglio orientare i cittadini. D’altra parte che con il muro contro muro la nostra coalizione non potesse andare lontano era ormai chiaro ai più".
Un dibattito serio sulla possibilità di riforma costituzionale tra i due schieramenti è quindi secondo lei possibile?
"Sì, credo che l’esperienza fatta da entrambi gli schieramenti di approvare riforme di questo tipo a colpi di maggioranza, abbia portato ora a credere che le intese debbano necessariamente essere trovate".
In conclusione: una riforma costituzionale era davvero indispensabiule?
"Con una battuta potrei risponderle che è caduto il Muro di Berlino e che quindi si può anche cambiare una costituzione. Più seriamente credo che mettere mano a dei principi sanciti sessant’anni fa non sia un attentato alla sovranità popolare, ma una scelta logica e razionale. Quelli che sostengono l’esistenza di dogmi intoccabili mi spaventano...".
Lei crede che questo referendum abbia implicazioni politiche importanti, del tipo ‘Se vince il sì Prodi deve tornare a casa’?
"Non credo che assisteremo a rivendicazioni di questo tipo: se ciò dovesse succedere sarebbe un comportamento totalmente sbagliato. Come ho già detto, spero veramente che le intese per raggiungere cambiamenti comuni vengano trovate e mi sembra difficile che ciò possa accadere delegittimando una vittoria elettorale che bene o male c’è stata. Prodi è stato eletto per cinque anni e ce lo teniamo".