Dèmoni pastori e fantasmi contadini
Maschere, costumi e filmati dai più caratteristici e trasgressivi carnevali di montagna. A cura del Museo degli Usi e Costumi di San Michele all'Adige.
Il l tema della maschera e del "mondo alla rovescia" che, pur con varianti interpretative legate ai singoli contesti culturali, sta alla base di ogni rituale carnevalesco europeo, affonda le proprie radici in un antico e comune substrato di credenze magico-simboliche, da cui affiorano talvolta elementi grotteschi e irrazionali, talmente ancorati alle tradizioni popolari da essere usciti indenni, se pur esclusivamente in forma cerimoniale, dal processo di cristianizzazione. Il sovvertimento ormai istituzionalizzato del Carnevale costituisce una traccia persistente di tali affioramenti e nelle aree più connotate da una solida identità culturale, mantiene ancora uno spiccato carattere ancestrale.
La mostra "Dèmoni pastori e fantasmi contadini" (fino al 14 maggio a Trento, presso gli spazi espositivi di Palazzo Roccabruna), curata dal Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, con la collaborazione del Museo Ladino di Fassa, del Museo degli Usi e Costumi di Termeno e della galleria TransArte di Rovereto, intende sottolineare, attraverso una suggestiva selezione di maschere, costumi ed altri oggetti tradizionali, le somiglianze e le relazioni esistenti tra le usanze carnevalesche di alcune valli del Trentino (alta Val di Fassa e Valfloriana), del vicino Sudtirolo (Termeno) e del villaggio bulgaro di Yambol. Realtà per lo più sconosciute al grande pubblico - in particolar modo quello cittadino - anche per via dell’isolamento e di una certa gelosia verso le proprie tradizioni culturali, custodite spesso con diffidenza dagli sguardi invadenti dei turisti e tramandatesi fedelmente di generazione in generazione. Si tratta però di manifestazioni affascinanti da un punto di vista antropologico, che contraddicono l’abusato stereotipo del montanaro chiuso e bigotto, gettando nuova luce su un mondo capace di insospettabili sfoghi trasgressivi e, talvolta, alquanto licenziosi.
Dal Trentino alla Bulgaria, le mascherate rituali seguono codici rigidamente prestabiliti, che si palesano nell’organizzazione di cortei itineranti in cui sfila un’umanità varia e colorita - a tratti ieratica e a tratti grottesca -, fatta di personaggi tipizzati, talmente in simbiosi con la loro seconda identità, da risultare per lo più irriconoscibili. Oltre alle figure ricorrenti, come ad esempio la coppia di sposi intorno ai quali ruotano finti cortei nuziali, formati da testimoni dai caratteri spiccatamente contrastanti come i "brutti" e i "belli", ricordiamo le "maschere-guida", ovvero i principali componenti delle singole sfilate: laché, marascons e bufon in Val di Fassa; matòci, arlechini e paiaci a Valfloriana; l’Egetmann e i Wudelen a Termeno; i kukeri a Yambol.
Dietro a maschere che conservano talvolta, anche dal punto di vista lessicale, un sapore arcaico, si nascondono gli individui più scanzonati della comunità (un tempo prevalentemente coscritti e giovani scapoli), impegnati in uno scambio di continue allusioni e provocazioni con il pubblico consenziente. Esemplari sono i casi del matòcio, detto anche Barba, e del bufon, le maschere più irriverenti e trasgressive del carnevale ladino che, nel corso delle mascherate, si scagliano a più riprese contro gli astanti con improperi conditi da esclamazioni colorite e gesti osceni. A questi si affiancano personaggi più compassati, come arlechini e marascons che, con le loro danze rituali e i loro costumi candidi ma esuberanti, adorni di fiori, nastri e piume, annunciano il rigenerarsi del ciclo naturale.
Al ritorno della bella stagione e alla ritrovata fertilità dei campi - nonché delle spose! - alludono anche i rituali dell’aratura e della semina, mimati dalle maschere nei carnevali di Termeno e Yambol, mentre una folta schiera di diavoli, streghe, vecchie, uomini selvatici e animali mostruosi contribuiscono a scacciare dal paese gli spiriti maligni, grazie ad un processo totemico di identificazione. L’intera comunità celebra, attraverso tali rituali, una sorta di catarsi collettiva che, avendo oramai in parte perduto il suo carattere ancestrale, si carica piuttosto di valenze a sfondo politico, legate alla questione del mantenimento della propria specifica identità culturale e alla necessità di distinzione ma, allo stesso tempo, di armonizzazione con il contesto circostante (come nel caso del contrèst, diverbio fatto di allusioni e punzecchiature che il Barba deve affrontare all’ingresso di ogni frazione di Valfloriana).
Nonostante alcune ovvie, quanto piccole, modifiche (fanno sorridere le bamboline gitane confuse tra gli altri ornamenti dei moderni cappelli da matòcio), le forme dei costumi e delle facére lignee sono rimaste inalterate nel tempo, a testimonianza di una tradizione artigiana dotata di una solidissima base culturale.
Completa la mostra un filmato che permette di veder animarsi i protagonisti del breve, ma intenso viaggio tra le maschere invernali, arcane e fantasmagoriche presenze destinate ad imprimersi nella memoria del visitatore.