Sogni e bugie nel naso di “Cirano”
L'adattamento dei Teatri Possibili (di e con Corrado D'Elia) attualizza la piece di Rostand reinterpretandolo ma rimanendole fedele. Un ottimo lavoro.
Con "Cirano di Bergerac", per la regia di Corrado D’Elia, la stagione di prosa può dirsi conclusa a tutti gli effetti; e nel migliore dei modi, almeno dal punto di vista teatrale. Dispiace infatti che il pur accogliente Cuminetti abbia sacrificato la fruizione della pièce. La capienza non è paragonabile a quella dell’Auditorium e, per consentire a tutti (non ai soli abbonati) di vederlo, sarebbe stato necessario distribuire lo spettacolo in più serate; cosa che non è accaduta. Inoltre, il fatto che i posti non siano numerati, come avviene in qualunque teatro, ha a sua volta penalizzato gli stessi abbonati secondo la logica del "chi prima arriva meglio alloggia".
L’adattamento proposto dalla compagnia Teatri Possibili di Milano è infatti rispettoso verso il testo originale, ma anche moderno e capace di osare. Innanzitutto, la traduzione in prosa di Franco Cuomo quasi cancella il verso di Rostand, conferendogli un’asciutta freschezza che nulla toglie alla forza lirica e barocca degli alessandrini. La lingua cambia ritmo e cadenza, evitando però di competere con quella francese per ottenere un primato. In tal modo, la versione italiana non delegittima Rostand e nemmeno lo attualizza; semplicemente lo interpreta e in parte lo reinventa.
In questo senso vanno lette anche le altre soluzioni registiche che, in un modo o nell’altro, si discostano dal copione originale. Fabrizio Palla, ad esempio, riduce le scene a una sola: la linearità del pavimento, sgombro ai lati, è interrotta bruscamente da superfici inclinate al centro. L’equilibrio è minacciato di continuo da colpi di fortuna e di sfortuna. "Il mondo è fatto a scale: chi le scende, chi le sale" dice il vecchio adagio, e dà un senso di vertigine vedere i personaggi – spesso in bilico – su quella pedana che, all’occorrenza, è un piedistallo, una trincea, un po’ piano di lavoro, mostrando come nulla sia ciò che sembra. "Cirano", del resto, è la tragicommedia dell’inganno e dell’apparenza, della ricerca disperata di qualcosa di vero, pur nella menzogna e nel sogno. Con tali premesse, i sostanziosi tagli e i costumi moderni non intaccano il discorso politico-sociale di Rostand, portato avanti dal carattere sanguigno dei guasconi.
Cirano, pronunciato all’italiana (verrebbe da dire alla Guccini), è un personaggio per cui è inevitabile provare simpatia; e ciò a dispetto dei suoi costanti tentativi di rendersi odioso – non solo ai potenti – pur di restare a debita distanza da quell’ingranaggio micidiale che si chiama "società". L’indipendenza e l’anticonformismo sono ideali diversi dall’autenticità: la poesia d’amore abbellisce una realtà ben più cruda, ma le restituisce una dimensione più umana; lo scambio di persona è un imbroglio, eppure permette sia a Cirano sia a Cristiano di esprimere sentimenti e emozioni che altrimenti resterebbero in silenzio. Per essere veri, dunque, è necessario indossare una maschera, come il naso palesemente finto del protagonista, qualcosa che si può sfilare e rimettere a piacimento, cambiando ruolo e identità. Il "naso" ci fa scoprire il Cirano che è in noi. Se così non fosse, non potremmo capire perché gli altri personaggi, morto Bergerac, mostrino la loro solidarietà, il loro mutamento interiore esibendo, con orgoglio e una punta d’amarezza, quel segno esteriore d’appartenenza.
A questo punto è utile un confronto con l’allestimento di Patroni Griffi (per la cui recensione rimandiamo al numero del 6 novembre 1999 di QT), in realtà successivo a quello dei Teatri Possibili, giunto quest’anno alla nona replica. Strana coincidenza che nel ’99 "Cyrano" aprisse le scene mentre nel 2006 le abbia chiuse: l’opera ha un valore così alto da inaugurare o suggellare una stagione. Perciò rappresentarlo è un’impresa non titanica ma ugualmente delicata e laboriosa. Il rischio maggiore è nel protagonismo di Cirano, che tende ad accentrare su di sé ogni attenzione, scelta registica e bravura attoriale al limite dell’istrionismo. Rischio che Patroni Griffi, affidandosi a un mostro sacro e superbo come Sebastiano Lo Monaco, in larga parte non aveva evitato.
D’Elia, al contrario, si muove su un terreno più agevole. Non solo ha un talento che rapisce ma sa dare spazio agli attori, pur rubando la scena in più di un’occasione come la pièce richiede a livello fisiologico. Basta una minima variazione nel tono di voce, nel timbro per evocare un universo di sensazioni in continua metamorfosi, tra pause e accelerazioni. Il resto del cast è all’altezza delle parti, anche difficili, assegnate. Ottima la prova di Federica Bognetti nel triplo ruolo di Lisa, la governante e la suora; tra gli altri, spiccano Rossana e il poeta-pasticciere. Ripensando a ciò che hanno creato, indossiamo quel naso per dire, tra una lacrima e un sorriso, "Io tocco!".