Epigrafia alpina
Iscrizioni e graffiti nella valle del Primiero. Un libro di Quinto Antonelli, e una mostra. Quinto Antonelli, WABL. Epigrafia popolare alpina, Tonadico, Ente parco Paneveggio-Pale di S. Martino, 2006 , pp. 174 (Quaderni del Parco, 6).
Quinto Antonelli non ha mai deluso i suoi lettori e anche questo suo nuovo libro non passerà inosservato. Il tema è, come altre volte, la scrittura popolare ma in un’accezione per lui (e per noi) inedita, anche se non inattesa: scrittura in senso letterale, verrebbe da dire originario, se l’espressione non desse vita a equivoci sgradevoli. Epigrafia popolare, recita il sottotitolo (il titolo è uno dei mille acronimi che Antonelli studia): scrittura debitrice dei modelli ufficiali e dominanti per secoli, scrittura tanto diffusa quanto, finora, poco indagata.
Che cosa significa epigrafia popolare alpina? Essenzialmente studio di tutte le iscrizioni incise, graffite, dipinte o impresse in qualunque altro modo su materiali disparatissimi (ma principalmente legno e pietra) che compaiono in particolare su baite e fienili di mezza montagna e che sono parte di un più articolato sistema di segni di natura assai varia, immagini, elementi simbolici, marchi, cifre, iscrizioni e scritture che trasformano il territorio rurale in un "ambiente scritto". E questo è il primo merito di Antonelli: avere esteso, per la prima volta, il concetto di "ambiente scritto", appunto, dall’ambito urbano, cittadino, a quello rurale o più specificamente alpino.
L’autore non ignora e non sottovaluta - è ovvio - la consistenza assai diversa, qualitativamente e quantitativamente, delle due realtà. Non si nasconde la grande ricchezza delle scritture cittadine, ufficiali e non, d’apparato e popolari, esposte e private, ecclesiastiche e laiche. Non nasconde la diversità di contesti e la povertà relativa degli ambienti rurali, ma non per questo rinuncia a gettare la sua sfida e a cercare faticosamente le tracce di lunghissimi processi di acquisizione delle pratiche di scrittura (e di lettura), delle loro testimonianze e della loro permanenza anche in ambiti per l’appunto toccati apparentemente molto tardi e marginalmente dai processi di civilizzazione e modernizzazione. Non rinuncia, insomma, a sottolineare che, magari poco e male, ma si scriveva anche in campagna o in montagna. Si scriveva nelle e sulle chiese, sulle lapidi cimiteriali e su quelle che campeggiano lungo le vie o nelle piazze a ricordo degli uomini o degli avvenimenti che hanno segnato la storia della comunità, sui monumenti ai caduti, nelle edicole sacre o ‘capitelli’ (dove lasciano il loro nome i committenti e dove trovano posto le invocazioni alla corte celeste), ai crocevia, o sui crocefissi, sulle architravi poste sopra le porte dei fienili o sul colmo del tetto (a questi ultimi due casi è dedicata gran parte del lavoro di rilevazione del libro). Sono però anche i luoghi della quotidianità entro le mura domestiche a essere segnati dalla scrittura. Si pensi a quel piccolo universo – un universo prevalentemente maschile - di oggetti incisi o intagliati: cofanetti e contenitori d’ogni specie, vasellame, taglieri, posate, ecc., ma anche agli "oggetti" di scrittura prevalentemente femminile: arazzi ricamati, tovaglie, asciugamani, federe, lenzuola.
Pratiche di scrittura, luoghi e tempi di scrittura, "esposta" o privata che sia, ma comunque popolare, sono indagate da Quinto Antonelli studiando un caso particolare, quello della Valle di Primiero: e prima di dimenticarcene occorre qui sottolineare un secondo elemento di pregio di questo libro: la sapiente capacità con cui si passa dallo studio di caso a considerazioni di carattere generale, senza giustapposizioni e senza mai cadere nella trappola di generalizzazioni tanto facili quanto fuorvianti e false.
L’autore inizia dunque il suo viaggio dall’ultimo medioevo, non prima di aver dato in un paio di paginette una sintesi efficace sulla difficile, ancorché non sofferta, identità valligiana. Parole utili, quelle di Quinto, soprattutto a quanti vivono in Primiero e avranno la voglia e l’umiltà di leggerle. Un’identità contraddistinta da una mai raggiunta composizione di differenze e polarità di origine storico-politica, di sovrapposizioni tra inquadramento istituzionale ed ecclesiastico sulle quali pesa anche una collocazione geografica che obbliga a secolari interferenze. Un’ identità "liquida", insomma, che non riesce a coagularsi attorno a un nucleo resistente, che fa i conti per secoli con l’isolamento montano, con il perdurare di forme di dominio politico signorile che si sovrappongono o convivono, almeno nella prima età moderna, con un’attività economica di non secondaria importanza, quale è il commercio di legname.
Dalla chiesa pievana di S. Maria parte il viaggio nel tempo e nello spazio di Primiero di Antonelli. La centralità religiosa e geografica dell’edificio sacro si fa chiaro e visibile segno della centralità della Chiesa con la "C" maiuscola nell’organizzare gli spazi mentali dei valligiani. Da S. Maria sciamano nel corso dei secoli le varie chiese filiali. Dalla chiesa pievana che contiene le immagini di Cristo, della Madonna, dei santi e il relativo apparato didascalico, escono anche iscrizioni ed epigrafi che ritroviamo dapprima sulle sue mura esterne, poi sulla mura esterne delle altre chiese, infine sui capitelli e sui numerosi affreschi murali, sugli stipiti di molte porte d’ingresso delle case del notabilato locale e poi, appunto, sulle case dei più umili, financo sulle porte d’ingresso di stalle e fienili e tutto questo lungo i secoli successivi. E’ una vicenda complessa che Antonelli ricostruisce con garbo e precisione, allargando progressivamente il suo angolo visuale fino a intrecciare ad esempio la storia del progressivo espandersi di tutti questi microprogetti di scrittura con la storia dell’alfabetizzazione e quindi della scuola, ambiti disciplinari in cui sappiamo che l’autore si muove con maestria e sicurezza. Lo fa usando ovviamente tutti i ferri del mestiere, la famosa "cassetta degli attrezzi" dello storico di professione. Nella quale infila anche zaino, scarponi e macchina fotografica, battendo il territorio per mesi, macinando chilometri e chilometri in montagna, vagabondando (in realtà seguendo percorsi precisi) tra baite e masi, facendosi "viaggiatore leggero", come leggero è il suo stile e leggera la sua scrittura, anche quando mette in campo questioni tutt’altro che innocenti quali le ideologie i loro dispositivi retorici, i tentativi di costruzione di fondamenti identitari o di ricostruzione di un astorico e indifferenziato passato alla luce di tradizioni inventate.
Ma torniamo al libro. Abbiamo accennato finora al primo capitolo della prima parte. Il secondo è tutto dedicato alla disamina delle scritture rilevate, alle tecniche, agli strumenti, ai materiali usati per scrivere, agli scopi che chi scriveva si prefiggeva, alle sue intenzioni e infine agli autori, agli scriventi. La seconda parte è costituita invece dal repertorio di tutte le iscrizioni rilevate, con il corredo di un ricco apparato fotografico e iconografico.
Quello che preme qui sottolineare - e che sottolinea anche Attilio Bartoli Langeli nella puntuale e per niente convenzionale prefazione - è la felicissima congiunzione di partecipazione e distacco di Antonelli.
Partecipazione simpatetica e solidale con uomini semplici che generazione dopo generazione hanno lasciato segni anche minimi di sé e della propria esistenza, spesso sferzata dal destino e dalla sfida continua alla povertà e all’indigenza. Distacco dello studioso che solo con le armi della critica restituisce dignità a quegli uomini, evitando le secche del sentimentalismo che talvolta caratterizzano ancora ricerche di cattiva storia locale.
I segni lasciati su muri e baite dai montanari di Primiero e di tutte le valli "sono sempre visibili e perciò leggibili da chi più o meno casualmente le incontri", "lo scambio comunicativo è paritario poiché a leggere sarà soltanto chi si troverà, prima o poi nelle stesse condizioni dello scrivente: chi passerà per quella via o sentiero, chi vivrà per un tempo più o meno lungo in quella baita, chi frequenterà quella chiesa" (p. 8).
La loro, per dirla ancora con Bartoli, "è una scrittura solidale e, per così dire, invitante: chi scrive invita l’altro a fare altrettanto […]. All’invito ha aderito pure Antonelli, benché solo con l’occhio: il suo atteggiamento di ricercatore e di ‘conservatore’ nasce da analoga solidarietà e partecipazione".