Alla scoperta degli altari
Un bene storico-artistico non apprezzato quanto merita.
E’ strano notare come certe mostre-fotocopia riescano ad attirare migliaia e migliaia di visitatori mentre polvere e silenzio ricoprono gli innumerevoli tesori d’arte disseminati nelle chiese della Penisola, se si escludono le città d’arte ove alcune chiese rientrano negli itinerari turistici.
Si dirà: la mostra propone un evento, un’occasione irripetibile, impone un occhio al calendario mentre per visitare una chiesa, come per un museo, c’è sempre tempo.
Il paradosso, frutto di una concezione dell’arte in balia di mode e campagne pubblicitarie, è però assai pericoloso: pericoloso per le opere, che nella trascuratezza diventano facile preda di furti talvolta su commissione di mercanti senza scrupoli; pericoloso per le comunità, perché molte delle opere d’arte e d’artigianato conservate nelle chiese posseggono, al di là del loro valore artistico, una valenza storica profondamente radicata nel territorio che rischia di divenire illeggibile; pericoloso infine per l’idea stessa di valorizzazione del bene artistico, che necessita sempre di un ingrediente fondamentale: l’essere sentito valore comune.
Un patrimonio, quello dei beni culturali ecclesiastici, vasto perché aperto a svariati campi, dalla scultura alla pittura, dall’artigianato all’architettura, dai tessuti alle arti applicate. La pubblicistica trentina, al di là di sparute iniziative per lo più a carattere campanilistico, ha mancato finora di una seria volontà d’indagine a 360 gradi, capace di analizzare monograficamente e scrupolosamente taluni aspetti di questo patrimonio su tutto il territorio della regione.
Finora, perché nel 2003 la Provincia, assieme all’Università di Trento, ha pubblicato due ponderosi volumi curati da Andrea Bacchi e Luciana Giacomelli, dedicati alla scultura in Trentino tra Seicento e Settecento. Argomento assai vasto e complesso, che dalla scultura tout court, lignea quanto soprattutto lapidea, si apre alle arti minori, dall’intaglio all’oreficeria, e che ha nell’arte sacra il suo cuore naturale e focale. A chi non è capitato, un po’ come lo stupido che guarda il dito invece che la luna, di interessarsi all’interno di una chiesa di una modesta pala d’altare, ignorando completamente il magnifico altare che l’incorniciava, magnifica summa di elementi architettonici, scultorei e decorativi?
Con questo intervento introduttivo, e con un prossimo percorso, vogliamo invitarvi a scoprire l’altaristica monumentale delle innumerevoli chiese trentine, rimandandovi, nell’augurato caso che vogliate approfondire l’argomento, ai sopraccitati volumi.
All’aprirsi del Cinquecento la situazione degli altari nelle chiese trentine era profondamente varia e generalmente deregolamentata. I classici altari a portelle (Flugelaltar) di gusto tardogotico erano collocati all’interno della chiesa senza un ordine e una gerarchia precisa, ed anche le iconografie dei dipinti e delle sculture che li adornavano non avevano precise norme stabilite. Il Concilio di Trento segnò, seppure senza effetti immediati, una radicale svolta. Nel corso di una sessione avvenuta nel 1551 si ribadì infatti la necessità di porre permanentemente l’ostia consacrata nel tabernacolo sopra la mensa dell’altare maggiore: una scelta che pose definitivamente quest’ultimo come fulcro centrale delle chiese, riordinando disposizioni fino ad allora casuali e di convenienza.
Santa Maria Maggiore a Trento, voluta da Bernardo Clesio, fu il capostipite di questo nuovo modello di chiesa. Ad aula unica, in essa la pluralità d’immagini dei vecchi altari lignei a portelle venne sostituita con l’unità della pala inserita in una struttura dalle forme spoglie e classiche. Quest’altare, chiamato "a edicola", era formato da un paliotto che ricopriva la parte posteriore della mensa, mentre l’ancona, ospitante la pala d’altare, presentava nella parte bassa una predella figurata; un egregio esempio di questa tipologia è quello di G. A. Zanoni nella chiesa di S. Giovanni Evangelista a Massone d’Arco, degli inizi del Seicento.
La normalizzazione degli arredi e degli altari, stabilita dal Concilio e promossa da personalità come Carlo Borromeo e il cardinale Paleotti, non ebbe però esiti immediati e diffusi su tutto il territorio trentino, portando in taluni casi a soluzioni in cui il nuovo altare inglobava frammenti di quello precedente, in special modo statue e dipinti a cui i fedeli erano particolarmente devoti, come nel caso dell’altare seicentesco della parrocchiale di Tione, ospitante statue cinquecentesche di Maffeo Olivieri.
Con l’avanzare del XVII secolo l’ancona dell’altare, perfettamente geometrica per la sua funzione di cornice della pala, inizia a "spezzarsi", ad aprirsi a forme più complesse e decorative, quasi come estensione della pala stessa; è questo il caso dell’altare maggiore della chiesa di S. Mauro a Baselga di Piné, del 1647-1649, opera di G. A. Minati.
Il tabernacolo, sempre più diffuso sopra la mensa, porta a un lento scomparire delle predelle, che da questo vengono in parte occultate.
La nuova centralità all’interno degli spazi sacri della chiesa porta altresì a una generale "sprivatizzazione" del sacro: spariscono insomma, o per lo meno non ne vengono realizzati di nuovi, gli stemmi nobiliari che comparivano sugli altari, così come le lastre tombali e soprattutto i monumenti funebri, talvolta perfino più colossali degli stessi altari. I primi altari controriformati sono caratterizzati, come abbiamo visto, da un assoluto rigore. La pietra, che sempre più sostituisce il legno nell’altaristica, porta inizialmente a soluzioni classiche, monocrome o bicrome, come ben esemplifica l’altare laterale datato 1640 della chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Tiarno di Sopra. Solo in piena età barocca si assisterà ad un esplodere luminoso e policromo dei materiali, in chiave naturalmente sacra.
Un altro e successivo effetto della centralità del tabernacolo, e delle sue dimensioni sempre più maestose - si veda quello della chiesa della Santissima Trinità a Masi di Cavalese -, è in molti casi la scomparsa della stessa pala d’altare, talvolta relegata con l’ancona nella parete di fondo dell’abside, in un secondo piano. Non si pensi però a una soluzione pauperistica; se il centro è il tabernacolo, la sontuosità dell’altare è data comunque da un trionfo di angeli e angioletti, vasi fiammati e tarsie marmoree, finti drappi e specchiature, come testimoniano la maggior parte degli altari marmorei del Settecento.
Gli altari laterali, di dimensioni minori rispetto a quello centrale, continuano invece la loro antica funzione di ostensori d’immagini spesso legate a culti locali. Quasi sempre immancabile, grazie anche alle numerose confraternite ad esso dedicate, è l’altare del Crocifisso, il cui esempio più mirabile è forse quello presente in Duomo, opera di Giacomo e Cristoforo Benedetti, Paul Strudel e Antonio Albertino. Talvolta al classico Cristo crocifisso vengono affiancate alcune varianti tipologiche, da quella con il Cristo in croce vivo a quella che presenta il Cristo morto disteso all’interno della mensa, come nell’esempio della chiesa di S. Lorenzo a Folgaria.
L’Illuminismo, e in particolare personalità come Ludovico Antonio Muratori, che scrisse nel 1747 la "Regolata devozione dei cristiani", portarono gli altari barocchi ad un "ritorno all’ordine" delle forme, che aprì al neoclassicismo. Ma presto le invasioni napoleoniche e le successive soppressioni chiusero definitivamente la più ricca stagione dell’altaristica.