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QT n. 17, 15 ottobre 2005 Monitor

Semiramide val bene una pazzia

Apprezzati i cantanti nella "Semiramide" del Teatro di Pisa; il resto invece, un po' sul mediocre...

Il 10 aprile 1847, dal suo esilio londinese, Giuseppe Mazzini scrisse alla madre: "Questa sera vado - gran cosa - a sentire la Semiramide; è una delle prime opere che ho sentito a Genova; e in virtù delle reminiscenze che mi desta, ho deciso di fare un miracolo e andare: unica volta che andrò al Teatro pagando; giacché se andrò altre volte, andrò con biglietti dati da’ miei amici cantanti. Una pazzia in un anno può farsi". Era genovese, Mazzini, non dimentichiamolo...

Gioacchino Rossini.

Sabato 8 ottobre, al Teatro Sociale, non tutti hanno osato emulare Mazzini, in occasione della prima di Semiramide, allestita dal Teatro di Pisa, in co-produzione con gli omologhi enti teatrali di Livorno e Rovigo, e con il Centro S. Chiara di Trento. Il teatro, difatti, non era al completo.

Sapevamo che i cantanti si sarebbero cimentati in un’opera costellata di virtuosismi; e un po’ perfidamente, dalle nostre poltrone, li aspettavamo al varco: ebbene, l’impressione è che si siano ben meritati gli applausi a scena aperta (come pure quelli finali). Nel dettaglio: Silvia Dalla Benetta, alias Semiramide, ha mostrato le sue doti vocali, riscuotendo il primo applauso sin dalle note di "Dolce pensiero", per poi ottenere un bis insieme al contralto Cristina Sogmaister, che nella parte maschile di Arsace ha poco dopo felicemente duettato con lei in "Alle più care immagini". Anche il duetto di Semiramide con il malvagio Assur (Paolo Pecchioli), al termine della terza scena del II atto, ha suscitato l’approvazione di un pubblico rinfrancato a dovere dal lungo intervallo, grazie al buffet inaugurale offerto dalla Direzione teatrale. La scena, inoltre, era stata vivacizzata dalle contorsioni erotiche dei due (ex?) amanti su una tavola da pranzo, sfociate poi quasi in una colluttazione. Una benefica botta di vitalità per questo allestimento, come vedremo.

"Per narrar del ben che vi trovammo"... dobbiamo raggiungere la fine della scena sesta, dove a raccogliere l’applauso è il bel canto di Idreno (Andrea Giovannini). Ma un più fragoroso riconoscimento esplode nella scena successiva, durante e al termine dell’accorato duetto Semiramide-Arsace, i quali (le quali) si abbracciano e piangono, travolti dalla "terribile Fatalità" che ha nuovamente riunito una madre e un figlio.

Qui cominciano le dolenti note. Il fatto è che adesso Assur sta per avere un’allucinazione tremenda, che lo schianterà a terra, per scatenare la quale il regista s’inventa (tenetevi forte)... una bella pipata di cocaina (o di crack?). Il bravo cantante non ne ha colpa, e si guadagna - comunque - un altro applauso. Il rimpiattino conclusivo tra Semiramide, Assur e Arsace, l’un contro gli altri armati, prelude al gran finale, brusco, ma intenso, rossinianissimo. Semiramide muore, Arsace diventa re, Assur è arrestato. Il pubblico apprezza, applaude, esce soddisfatto.

Va tuttavia osservato che la regia (di Stefano Vizioli), fino all’amplesso-colluttazione di Semiramide e Assur, è apparsa alquanto statica, con cantanti e coro spesso impalati in scena, e non solo nelle canoniche (per carità!) posizioni contrapposte o a triangolo. Difetto strutturale di quest’opera, o dell’opera in generale, si potrebbe obiettare, ma forse si poteva fare di più. Anche nella scena nona, quando Semiramide si fa massaggiare e servire, circondata da giovani citariste e donzelle, ci sembra si sia sprecata un’occasione per dinamizzare l’azione scenica, tenuto conto che di un’opera rossiniana stiamo trattando, ossia di un testo musicale notoriamente caratterizzato da frenetiche accelerazioni ritmiche. Della sniffata di Assur abbiamo già detto - e non è per bieco purismo conformista che ne segnaliamo l’impertinenza drammaturgica.

La scelta dei costumi (Anne Marie Heinreich) ci è parsa inoltre un poco sfocata, a causa di un’indecisione tra abbigliamento d’atmosfera e moderno.

Qualche considerazione sulla scenografia (Lorenzo Cutùli): dato che il libretto di Gaetano Rossi prevede per l’azione drammatica luoghi come un "magnifico tempio a Belo", "atrio", "giardini pensili", "fiorito berceau", "luogo magnifico nella reggia con veduta di Babilonia", "appartamenti di Semiramide", "sotterraneo del mausoleo di Nino", ecc., avremmo potuto attenderci qualcosa di più di alcuni faccioni sovrastanti di volta in volta la scena, pur riconoscendo che il sistema delle colonne mobili ha funzionato con efficacia. Particolarmente perplessi ci ha lasciati un colossale manufatto che, si perdoni la trivialità, assomigliava ad una vagina d’oro con le ali.

La direzione d’orchestra (Filippo Maria Bressan) ci è parsa, da ignoranti quali siamo, adeguata, benché qualche malumore esperto, raccolto nell’intervallo e alla fine, ci abbia confermato che non tutto è filato liscio, specialmente per quanto riguarda la concertazione e, in particolare, i fiati. Dettagli, forse, per noi, ma non per le orecchie sensibili.

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