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Appunti di un viaggio negli States

Marco Cova, Francesca Agostini

Nell’America del presidentepetroliere, che rifiuta il protocollo di Kyoto, le cui politiche ambientali sono decise dai lobbisti delle corporation energetiche, in cui prendere un panino al bar significa produrre un chilo di imballaggi rigidamente non riciclabili, ti imbatti nelle città di Eureka e Arcata. Ecco, inaspetta, un’altra America: cittadini ambientalisti, tanti studenti prestati alla vicina Humboldt University, completamente dedicata alle scienze naturali, parchi difesi ed estesi con battaglie milionarie, il giornale "Econews". Non ci sono McDonald’s o Starbucks in centro, ma negozietti non in franchising dove acquistare vestiti in fibra naturale e libri usati, e piccoli bar dove ti servono il caffè nei bicchieroni in ceramica, rigorosamente riusabili.

Da qualche anno si riconosce che la metafora del melting pot – la perfetta fusione ed amalgama di etnie razze e culture – non descrive più tanto bene la società americana, e si preferisce, invece, rappresentarla come una salad bowl, un’insalatiera in cui i vari pezzi coesistono ma rimangono ben distinti gli uni dagli altri. Forse, un’analoga distinzione andrebbe fatta in campi diversi da quello prettamente sociale-etnico: bisognerebbe pensare, quindi, non ad un’America omogenea, definibile una volta per tutte, ma ad un puzzle in cui, su ogni questione, si confrontano e a volte scontrano tutte le teorie, i punti di vista, le ideologie. E forse proprio qui sta uno dei punti di forza di questo Paese: sapere sempre ridefinirsi, cambiare, voltare pagina.

Qui lo chiamano cronyism, letteralmente "amicismo", ma il concetto è il vecchio, italico, vituperato ma spesso frequentato vizio del nepotismo. E, manco a dirlo, viene praticato, ai più alti livelli e con conseguenze nefaste, anche nell’America che si vuole fondata sulla meritocrazia. Il caso più celebre è quello di Michael D. Brown, fino al 12 settembre capo della FEMA (Federal Emergency Management Agency), l’agenzia federale incaricata di gestire le emergenze naturali e non. Come ha conquistato il posto il nostro Brown? Non si direbbe grazie al curriculum: avvocato in Colorado e Oklahoma, licenziato dalla International Arabian Horse Association, agenzia che si occupa di mostre di cavalli, nessuna esperienza di gestione emergenze. La sua vera abilità? Al college, essere stato compagno di stanza del precedente capo dell’agenzia, Joseph Allbaugh.

Michael D. Brown, capo della FEMA (Federal Emergency Management Agency).

New Orleans, sommersa da Katrina, non ha apprezzato, e nemmeno la FEMA, ai tempi di Clinton una delle più rispettate agenzie federali, e ora sommersa dalle critiche.

I giornali si sono quindi buttati alla ricerca di curriculum sospetti: il New York Times di qualche settimana fa pubblicava un articolo dal titolo significativo, "Tutti gli amici del presidente", chiaro riferimento al "Tutti gli uomini del presidente" in cui Bob Woodward e Carl Bernstein raccontavano l’indagine che portò al Watergate. Il risultato degli articoli non sarà senz’altro l’impeachment del presidente, ma tutti sperano, per lo meno, che i cronies tornino a fare semplicemente gli amiconi, lasciando gli offices a gente più preparata.

Ci svegliamo: su CNN, il canale delle notizie per definizione, scorrono a ciclo continuo tutte le ultime agenzie. L’ultima notizia, sempre, 24 ore su 24, pubblicità permettendo, è il livello attuale di pericolo terrorismo. Oggi è giallo/elevato: il gradino di pericolo intermedio secondo l’apposita scala cromatica progettata dal Department of Homeland Security, paragonabile al nostro Ministero dell’interno. Significa che siamo "in presenza di ragguardevole rischio di attentati terroristici" e che apposite contro-misure sono messe in atto da parte delle agenzie interessate.

Prendiamo l’auto. Il bus che ci precede in coda espone un cartellone pubblicitario che dice: "Fatti furbo. Sii responsabile. Preparati. Fa’ un piano familiare per le emergenze".

Nei negozi, appositi cartelloni ci istruiscono sulle pratiche di emergenza e annunciano future esercitazioni.

Torniamo a casa. Il canale di Santa Barbara trasmette informazioni di carattere locale e la lista delle cose necessarie per costruire un family emergency kit.

Dove sta il limite tra preparazione e allarmismo? Quali sono le conseguenze del vivere perennemente in uno stato di allarme? Chi ha visto il non più recentissimo ma sempre attuale "Fahrenheit 9/11" sa bene che risposte dia a queste domande il regista Michael Moore.

Altre due esperienze vissute direttamente: il giorno prima del nostro ritorno due operai di una compagnia elettrica hanno sbagliato a collegare dei cavi in una centrale di Los Angeles, lasciando senza elettricità parecchi quartieri della città per un paio d’ore, e le televisioni hanno immediatamente fatto rimbalzare il dubbio attentato. E quando all’aereoporto JFK di New York tutte le partenze sono state sospese (per permettere l’atterraggio di aerei a corto di carburante, si è scoperto poi), non pochi passeggeri hanno pensato "Ci risiamo. Cosa sarà esploso questa volta?"

L’evento delle ultime settimane è ovviamente l’hurricane Katrina. CNN, autoproclamatasi il nostro quartier generale sulla questione, manda i suoi inviati nella tempesta, intervista personalità e persone comuni, raccoglie le loro testimonianze e appelli, sceglie di non mostrare le immagine giudicate troppo crude dei corpi in acqua, chiama a raccolta gli analisti meteorologici e gli ingegneri. Ci dice cosa succede e come succede per 24 ore al giorno, per una decina di giorni di fila, non lasciando praticamente nessuno spazio ad altre notizie. Ma le domande realmente interessanti (perché tutto questo è potuto succdere, le responsabilità, come evitare il ripetersi di eventi del genere), non vengono mai fatte: non è il momento delle critiche ma dell’aiuto, è la giustificazione ufficiale.

Dopo una decina di giorni di immagini, descrizioni, sensazioni, apriamo il Los Angeles Times, e qui le domande ci sono, eccome: perché il finanziamento per le dighe è da anni inferiore della metà a quanto richiesto dall’Army Corps Engineering che le mantiene? Che influenza ha avuto sull’evoluzione dell’emergenza il fatto che quasi metà della guardia nazionale della Louisiana fosse indisponibile perché impegnato in Iraq? Perché in posti chiave dell’amministrazione si sono trovati personaggi palesemente impreparati? Perché nonostante i miliardi spesi nel dopo 11 settembre non si è ancora in grado di far coordinare in maniera accettabile autorità locali, statali e federali? La dottrina che si possono tenere due fronti di guerra aperti e al contempo gestire emergenze interne è ancora valida? Quanto è affidabile un governo che va in vacanza (5 settimane Bush) e vi rimane anche quando è chiaro che il pericolo è imminente? Che fiducia concedere a Bush che prima sostiene che la risposta all’emergenza è stata "eccezionalmente buona", poi scarica la colpa dei vari errori sugli apparati locali e solo dopo giorni e giorni riconosce le proprie responsabilità? La gestione dell’emergenza sarebbe stata diversa se quanti sono rimasti a New Orleans non fossero stati dei neri, per di più poveri ?

Ora si aspettano le risposte.