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QT n. 11, 4 giugno 2005 Monitor

Dieci da Cannes

"L’enfant", "The three Burials of Melquiades Estrada", "Don’t Come Knockin’", "Free Zone", "A History of Violence", "Operetta Tanukigoten", "Shangai Dreams", "Caché", "Le temps qui reste", "Batalla en el cielo": pagelline con voti.

Pagelline e considerazioni sparse su dieci film visti al festival di Cannes. 1) "L’enfant", di Jean-Pierre e Luc Dardenne, Belgio/Francia, Palma d’oro. La moralità cristallina della macchina da presa. La storia è quella di un giovanissimo padre sottoproletario che decide quasi per caso di vendere suo figlio. Nessun poliziesco può raggiungere in una scena d’azione (due ragazzi, in moto, inseguiti dopo uno scippo) una tensione paragonabile. E fra le altre cose, lasciano stupefatti la forza e il pathos con cui questi registi riescono a raccontare la noia: ad esempio quando il protagonista si sporca nel fango le suole delle scarpe da ginnastica e salta su un muro bianco per segnare le impronte. Come fa una sequenza così a essere tanto coinvolgente? Voto 9.

2) "The three Burials of Melquiades Estrada", di Tommy Lee Jones, USA. Viene voglia di definirlo un post-western: gli spazi e i cliché del "cinema americano per eccellenza" usati in funzione di una tematica contemporanea, quella dell’immigrazione e delle frontiere. Tommy Lee Jones è un ranchero che varca illegalmente, "all’incontrario" e a cavallo, il confine tra Messico e USA con una guardia e un cadavere. Voto 8.

3) "Don’t Come Knockin’", di Wim Wenders, Francia/Germania. Il voto, manifestamente troppo ingeneroso, è 4. Ma di questi film di Wenders non se ne può proprio più: le musiche sono (scontatamente) straordinarie, gli spazi idem; meraviglia la fotografia dell’America cool, quella dei miseri villaggi del Sud con le insegne che fanno arte povera, la polvere e le auto anni bombate degli Cinquanta. E la storia? E i personaggi? E i contenuti? Nel cinema di Wenders sembrano diventati un optional.

4) "Free Zone", di Amos Gitai, USA/Israele. 6-. Di solito è la reazione naïve di fronte all’arte contemporanea: "Questo lo saprei fare anch’io". Viene voglia di dire lo stesso davanti all’ultimo film di Amos Gitai, che sale in macchina, si fa un giro e ci fa vedere un po’ di territori (i confini di Israele, la Giordania, la Free Zone…) facendo chiacchierare la tassista al volante, l’americana in fuga e la commerciante palestinese.

5) "A History of Violence", di David Cronenberg, USA. Voto 6. E’ tratto da un fumetto, e - nel male, nella bidimensionalità dei personaggi - si vede. In questa storia c’è troppo poco di quell’autorialità e di quel riconoscibile sguardo che si pretende da ogni film di Cronenberg.

6) "Operetta Tanukigoten", di Seijun Suzuki, Giappone. Voto 6+. Un vecchio maestro del cinema di genere giapponese realizza una fiaba iper-colorata, barocca, centrifuga. Ma lo scatenamento dell’immaginario orientale produce mostri pop e oggetti volanti non sempre identificabili dall’occhio occidentale.

7) "Shangai Dreams", di Wang Xiaoshuai, Cina. Voto 6.5. Questo autore cinese di nuova generazione ("Le biciclette di Pechino") ci fa rivedere una storia in gran parte già vista (conflitti generazionali nella Cina dei primi anni Ottanta), ma con una buona capacità di gestire i percorsi dei personaggi e i tempi del racconto.

8) "Caché", di Michael Haneke, Francia. La gelida attenzione di Haneke si posa ancora su un contesto familiare alto-borghese, invaso stavolta non da sadici criminali come in "Funny Games", ma da uno sguardo estraneo: la casa dove vivono marito (Daniel Auteuil), moglie (Juliette Binoche) e figlio è filmata, tenuta sotto osservazione non si capisce da chi. Si scopre poi un’ossessione che esce dal passato. Nell’infanzia del marito si nascondono le ferite della Francia post-coloniale. Voto 7+.

9) "Le temps qui reste", di François Ozon, Francia. Voto 6-. Uno dei molti film del festival sul tema della paternità e della morte. Ma François Ozon deve prendere atto che non è Rainer Maria Fassbinder. Le svolte al melodramma o si fanno fino in fondo o non si fanno proprio.

10) "Batalla en el cielo", di Carlos Reygadas, Messico. Voto: 7/8. La prima inquadratura è un primo piano su un uomo ciccione. La macchina da presa scende lentamente e ci rivela una biondina rasta intenta a praticargli uno sproporzionato blow-job. Si scopre che il ciccione è un militare e la bionda la figlia di un generale. Ma il film è sulla colpa, l’inadeguatezza, la punizione e si conclude con un dolorosissimo pellegrinaggio. Lo sguardo di Reygadas allaccia le sequenze con una precisione e una clinica compassione invidiabili. Questo regista va tenuto d’occhio.