Cannes 2006
I film più significativi alla rassegna francese, dalla Palma d'Oro a Ken Loach a un talentuoso norvegese e uno tagiko.
"The wind that shakes the barley" non è certo un film innovativo, nella forma o nel contenuto, ma è una storia ben scritta, e non demerita la Palma d’oro. Diversamente dalle ultime opere di Ken Loach, rimane lontano da ogni eccesso retorico, mettendo in primo piano i nodi problematici della vicenda che racconta, la lotta irlandese per l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1920.
La medaglia d’argento, il premio alla regia, è andato a Alejandro Gonzales Inarritu, autore di "Babel", film complesso e affascinante che parla dell’inestricabilità dei destini globali: una pallottola sparata in Marocco coinvolge una famiglia in Giappone, e crea problemi a una balia messicana. L’intreccio delle trame e lo sfasamento temporale assumono già le vesti di una maniera, nel cinema del regista messicano e del suo sceneggiatore Guillermo Arriaga. Ma le loro storie hanno una grande forza narrativa.
Di (alta) maniera sono anche i film di Pedro Almodovar, "Volver", e Aki Kaurismaki, "The lights of the dusk". Riprendono e proseguono i racconti cui ci hanno abituati due autori capaci di fare di ogni loro inquadratura un marchio di fabbrica. Due pellicole da non perdere.
Sceglie di restare assolutamente alla superficie della storia Sofia Coppola, che in "Marie-Antoinette" porta sullo schermo la vita della regina di Francia mostrandocela attraverso i dettagli più sciocchi: i bon-bon, le scarpette, i riti di corte. Sofia Coppola non sa sempre cosa fare dell’oggetto-cinema, sembra incerta in molte scelte di inquadratura o di montaggio. E non è chiaro di cosa la regista vada in cerca anche nel rapporto con la figura di Maria Antonietta. Ma, paradossalmente, diventa un motivo di interesse proprio questa affettazione, questo menefreghismo, questa relazione consumata frettolosamente tra una regista e il suo personaggio.
Guarda indietro alla storia anche Guillermo del Toro, che ambienta il suo fantasy dal titolo "Il labirinto di Pan" all’epoca della guerra civile spagnola. Un film strano, questo, di cui non si capisce per che pubblico sia pensato: ha per protagonista una bambina e parla di fauni e di fate; ma allo stesso tempo è molto violento, mostra torture in primo piano, mamme che muoiono di parto e fascisti che, come Terminator, si cuciono la faccia da soli. Ne vien fuori un film troppo schematico per un adulto e troppo traumatizzante per un bambino.
"Indigènes" di Rachid Bouchareb (i cui attori sono stati premiati con un riconoscimento collettivo) è dedicato a un tema importante, l’apporto dei soldati africani alla liberazione dell’Europa dal nazismo. Il film segue però ligio ligio le convenzioni da film di guerra alla soldato Ryan, con tanto di visita al cimitero militare "sessant’anni dopo". Resta buono per una serata televisiva del tipo Educational Channel.
"L’amico di famiglia"di Paolo Sorrentino ha ricevuto dalla stampa internazionale una pessima ricezione critica. Non sono evidentemente piaciute le enfasi di regia, i barocchisimi, le difficoltà di una sceneggiatura molto complessa. Eppure, prese per il verso giusto, tutte queste possono anche essere viste come qualità. Sorrentino rimane, con Matteo Garrone, il più bravo regista italiano della nuova generazione.
Altre conferme: il regista turco Nuri Bilge Ceylan, che racconta, in "Ikilmler" ("I climi"), la storia di due che si lasciano. Lo fa con uno sguardo "alla Antonioni" che può risultare vecchissimo. Ma ci piace vedere come il regista turco riesca a mostrare i motivi della fine di un amore non attraverso le parole o i dialoghi ma in semplici, intensissimi primi piani dei volti.
E’ uno sguardo talentuoso anche quello del giovane regista tagiko Djamshed Usmonov, già autore de "L’angelo della spalla destra". "Per andare in cielo bisogna prima morire" racconta la storia di un marito che non riesce a far l’amore con la moglie. Va quindi in giro per la città a cercare una donna con cui allenarsi. Il film non è né una commedia né un dramma, ma una mezza via, lenta, sentimentale, sincera.
Le piccole scoperte di Cannes 2006 sono due: la prima è l’unico film comico visto al festival, una commedia rumena, "12:08 à l’Est de Bucharest" di Corneliu Porumboiu, vincitore della Caméra d’Or per la miglior opera prima. Girato con due lire, racconta un dibattito in una televisione locale. La domanda è: nella cittadina di provincia in cui il film è ambientato la gente è scesa in piazza a giochi conclusi, quando Ceausescu era già in fuga, oppure si è presa dei rischi manifestando la propria opposizione di fronte a un regime ancora in sella? Capire se in quel posto c’è stata la rivoluzione o no (diventa questa la domanda-tormentone) è una questione di minuti. Ma i testimoni non sono attendibili e la memoria, anche quella recente, risulta incondivisibile, persa in un gioco grottesco di amnesie, ubriachezze e pregiudizi.
L’altra piccola gemma è "The Bothersome Man", surreale pellicola norvegese di Jens Lien. Il protagonista si trova, sin dall’inizio del film, in uno strano Paradiso: un Eden come avrebbero potuto progettarlo Beckett, o Tati, un surrogato edulcorato del mondo in cui stiamo, dove tutto fila liscio e dove tutto, quindi, diventa assurdo. Il protagonista, infatti, non riesce a riconoscere questo Aldilà come Paradiso, e finisce per pagare le conseguenze della sua raziocinante insoddisfazione finendo condannato a vivere in un posto che, visto appena di sbircio, potrebbe essere un Inferno.