A sinistra per Cannes
Un festival politico quello di Cannes, con un punto di vista critico sullo stato di salute del pianeta.
Non male, Quentin Tarantino che premia Michael Moore: la (presunta) impolitica che premia la politica scoprendo un terreno d’incontro nella costruzione di storie sul filo dello humour e nella formulazione di un messaggio che trova senso nel suo essere comunicativo, diffuso, popolare. Alla fine dei conti e alla chiusura dei premi, questa del 2004 rischia di essere una delle edizioni del festival di Cannes più a sinistra della storia. Michael Moore è un famoso esponente della fronda USA anti-Bush. Si fa fatica a farlo passare per anti-americano, perché l’americanità Michael Moore proprio la incarna, fisico appesantito e berrettino da baseball. "Fahrenheit 9/11", Palma d’Oro, è un film che merita di essere premiato.
L’unico rimpianto del palmarès è l’esclusione di Wong Kar-Wai, uno dei grandi registi dei nostri tempi, sempre incredibilmente tagliato fuori dalle premiazioni anche se in carriera non ha mai sbagliato un film. "2046" - pellicola travagliata, incompiuta - è un’opera allo stesso tempo innovativa e coerente con il passato del suo autore: è davvero enorme la delicatezza con cui il regista di Hong Kong riempie di suggestione questa storia di controtempi sentimentali. Gli altri nomi grossi in concorso (Kusturica, i Coen…), diversamente da Wong Kar-Wai, non sono riusciti ad avere questo scatto in più rispetto al loro cinema precedente.
L’Asia ha giocato anche quest’anno una parte importante: "Old boy", il coreano che ha vinto il Grand Prix, affronta in modo forte, teso, il tema della vendetta, tra Shakespeare e la tragedia greca. Il film sarà distribuito in Italia e va visto anche per una sconvolgente prova dell’attore protagonista, che mangia a morsi un polipo vivo piuttosto refrattario all’idea di essere divorato. "Nobody knows", giapponese, è un altro film pieno di ottime scelte di regia. Dura due ore e mezza, ma devono essere questi i tempi giusti per raccontare la storia di un quartetto di bambini abbandonati a loro stessi in un appartamento. Il ragazzo più grandicello ha addirittura vinto il premio come miglior attore. Per restare a Est, la giuria ha inoltre menzionato "Tropical Malady" (Tailandia), uno di quei titoli che segnano una rottura totale tra festival e pubblico, da sconsigliare assolutamente allo "spettatore comune".
Alla giuria e anche alla critica è piuttosto piaciuto "Comme une image", della regista de "Il gusto degli altri" Agnès Jaoui. Il premio alla sceneggiatura è decisamente meritato: in certi momenti la commedia ricorda il miglior Woody Allen.
La sezione "Un certain regard", vinta l’anno scorso da "La meglio gioventù", ha visto premiato "Mooladé", del senegalese Ousmane Sembene, veterano del cinema africano. Il film racconta la storia di una donna che in un villaggio si ribella alla pratica dell’escissione. La pellicola può sicuramente aiutare la discussione sul tema, affrontato da Sembene in un’ottica totalmente femminista. E’ stato premiato in questa sezione parallela anche l’afgano "Terra e cenere", prezioso film che rende assorbibile il clima di un Paese rassegnato al fuoco delle armi e ormai indifferente alla provenienza delle bombe: gli americani, ultimi responsabili, non sono mai nominati.
Qualche altra segnalazione sparsa: "House of the flying daggers", di Zhang Yimou, regista che davvero può permettersi di fare quello che vuole, dal neo-realismo al cinema acido post-moderno, al cappa e spada, come questa sua ultima produzione presentata fuori concorso. E’ un film che raggiunge l’attuale non plus ultra per quel che riguarda le scene di combattimento e di kung-fu: "La tigre e il dragone" e compagnia risultano al confronto esteticamente nulli.
Poi: "The assassination of Richard Nixon", di Niels Müller, descrizione del piano inclinato che porta un americano medio all’esasperazione. Richard Nixon, presidente/mentitore, è l’incarnazione vivente della grande balla dell’"american dream".
Il film/saggio di Jean-Luc Godard, "Notre musique", è una riflessione non analitica sul ruolo dell’immagine nella cronaca e nelle guerre. Di approfondimenti di questo livello sui rapporti fra testo e immagine e fra immagine e immaginario, si sente sempre più il bisogno. Ad esempio, una domanda di attualità potrebbe essere: perché le torture finte al Gesù di Mel Gibson commuovono gli americani di più delle torture vere nel carcere di Abu Ghraib? Il film di Godard, purtroppo, è di quelli "da festival", nel senso che sarà molto difficile vederlo, anche in DVD, anche nelle notti di Rai3.
E’ stato, in conclusione, un festival politico, un festival con un punto di vista inevitabilmente critico sullo stato attuale di salute del mondo. Proprio su questa scia va collocata la discreta presenza del Trentino al festival di Cannes: il Museo della Guerra di Rovereto e il Museo Storico di Trento hanno prodotto "Oh, uomo", di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, presentato alla "Quinzaine des réalisateurs". Il film, molto duro, difficile, è il lavoro che chiude la trilogia dei due autori basata sugli archivi di immagini della Prima Guerra Mondiale. Il pubblico del teatro Noga-Croisette ha reagito bene a questo montaggio giocato sulla dilatazione dei tempi e la profondità dello sguardo. La sfilata di soldati dai volti mutilati, resi mostri dalla guerra, ha fatto scappare solo pochi spettatori. Alla fine della proiezione l’applauso è stato lungo e ritmato.