Vi ricordate la canapa?
Come avveniva la faticosa lavorazione di questa pianta dimenticata. Dal “Giornale di Massa”, mensile di Massa Lombarda (Ravenna).
"Verda verdarèla/ cun un fer im bota a tera,/ cun di l’aqua travajèda/ ecco, bianca a so dvintèda".
La soluzione di questo indovinello dialettale è la parola "canapa". Il termine "travajeda" (travagliata) è molto preciso e dà l’idea di un lavoro faticosissimo, vicino alla sofferenza fisica. Ancora nell’Ottocento la coltivazione di un ettaro di canapa richiedeva una manodopera corrispondente a quella per lavorarne 4 o 5 di frumento, ottenendo, per di più, una resa inferiore.
Sembra che la canapa fosse già conosciuta e utilizzata in Asia almeno nel terzo millennio a. C. e secondo Erodoto, sarebbero stati gli Sciti ad introdurla in Europa nel V secolo a. C. Sicuramente la sua coltivazione fu nota ai Romani, e rimase un’importante voce nell’economia europea fino alla metà del Novecento.
Fu utilizzata soprattutto per confezionare biancheria e capi di vestiario, resistenti sebbene poco eleganti, ma anche per ottenere vele e cordame d’ogni genere.
In Italia la coltivazione della canapa ottenne un notevole incremento attorno al 1500, quando cominciò a sostituire gradatamente il lino, in crisi per condizioni climatiche sempre più avverse. Tuttavia la tecnica colturale e la lavorazione delle due fibre somigliano molto.
Nei primi decenni del Novecento in Italia si raggiunse il picco di 100.000 ettari di terreno destinato a canapa, che resero, nel 1926, oltre 1.200.000 quintali di prodotto grezzo. Il nostro Paese era allora secondo produttore mondiale dopo l’Unione Sovietica e davanti alla Polonia; forse anche la Cina ci superava, ma non era in grado di fornire dati statistici attendibili.
L’Emilia-Romagna aveva il primato in Italia, sia per quantità che per qualità, grazie a dei terreni particolarmente adatti. La crisi arrivò dopo la metà del secolo, con la scoperta di fibre alternative e con l’importazione del prodotto grezzo da paesi dove la manodopera costava meno. Così, nel 1958, la canapa era praticamente scomparsa dalla Valpadana e nel 1964 cessò anche in Campania, ultimo baluardo di una tradizione plurisecolare.
La coltura tradizionale, che tanto lasciò nel nostro costume, nel nostro linguaggio e nella nostra toponomastica, era molto laboriosa. Per ottenere un buon canapaio era necessario praticare una profonda aratura, quindi lavorare finemente il terreno con l’erpice o con la zappa; la concimazione poteva tornare utile, ma non era indispensabile. La semina avveniva in marzo e subito bisognava sorvegliare i campi per impedire che i passeri ed altri piccoli uccelli usassero come becchime i semi, dei quali erano ghiotti, così com’erano ghiotti dei germogli appena spuntati. Ma lo spaventapasseri, dopo poche ore di presenza, non incuteva più timore e gli uccelli vi si posavano sopra, felici di aver trovato un comodo punto di appoggio. Talvolta i monelli lo bruciavano, divertendosi senza spendere un soldo. Poteva anche succedere che qualche povero più povero degli altri lo rubasse, se gli facevano gola quei quattro cenci sudici e logori.
Per tener lontani gli uccelli, era preferibile mandare i ragazzi nel canapaio a percuotere certi ferri o ad agitare campanelli per provocare un rumore stridulo.
La coltivazione non richiedeva alcuna operazione di sarchiatura o di diserbo, perché sotto quegli alti fusti nessuna erbaccia, nemmeno la gramigna, riusciva a spuntare.
La fatica riprendeva in agosto, quando si procedeva al taglio della canapa con uno strumento rudimentale, chiamato runcòn, spesso ricavato da una vecchia falce da fieno. Alcune piante, come vedremo, venivano lasciate nel campo più a lungo al fine di ottenerne semi, le restanti invece venivano appunto recise ed erano destinate ad un lungo processo di lavorazione. Si lasciavano qualche giorno ad essiccare, anche rivoltandole, poi si legavano a cono e si disponevano ritte; dopo di che i fusti venivano sbattuti violentemente per terra onde liberarli delle foglie e venivano privati delle cime.
A quel punto si procedeva alla cosiddetta "tiratura", che consisteva nel porre alla stessa altezza le parti inferiori degli steli, nel fissarle con pesi ad un apposito attrezzo (il "tiradùr"), per poi tirar fuori le piante dalla cima avendo cura di legare strettamente assieme quelle della stessa altezza. Seguiva il loro trasporto al macero, dove i fasci venivano immersi nell’acqua e tenuti giù da sassi, o da pali di legno che venivano assicurati al fondo. Il proprietario del macero (o un suo incaricato) sorvegliava che tutto procedesse regolarmente e riscuoteva il compenso pattuito. Non era necessario che la macerazione avvenisse in acque stagnanti, tanto è vero che nel Settecento qualcuno lo eseguiva nelle acque correnti del fiume Santerno, risparmiando in tal modo la spesa del macero.
In acqua corrente o in acqua stagnante, dopo un periodo che andava dai sette ai dieci giorni, la macerazione della canapa era completata, favorita da bacilli atti alla fermentazione. A quel punto, i fasci di canapa, ormai putridi e nauseabondi, venivano lavati nella stessa acqua del macero, poi tolti via e posti ad asciugare ritti sul terreno. Se il tempo era bello, la canapa acquisiva il suo colore ideale – biondo argentino -, altrimenti perdeva lucentezza.
Seguiva poi la "scavezzatura", che consisteva nel battere i fusti con un bastone per farne uscire la fibra; quel che restava erano i "canapuli", utilizzati come combustibile, o per farne zolfanelli dopo che erano stati intrisi nello zolfo liquefatto.
L’operazione successiva era la "gramolatura" e aveva lo scopo di togliere i residui stecchi dalla fibra, che avrebbero deprezzato la merce.
Qui aveva termine l’opera del coltivatore e iniziava quella del "canapino", un mestiere che si esercitava per lo più in forma ambulante nelle case dei clienti, come accadeva per altri mestieri oggi perduti.
Conviene a questo punto fare almeno un cenno ai prodotti considerati secondari della canapa, che si ottenevano dai semi (i quali, volendo essere precisi, erano in realtà i frutti). Per ottenere questi semi, alcune delle piante più alte restavano più a lungo nel canapaio e da esse si ricavava il seme per l’annata successiva, ma anche becchime per i canarini. Alcune persone poi se ne nutrivano, e se ne nutrono tuttora, poiché contengono tutte le proteine di cui abbisogna l’organismo umano, oltre ad una gran quantità di vitamine B ed E.
I semi di canapa fanno quindi parte di un commercio di prodotti biologici e alternativi, come l’olio da essi ricavato, leggero e gradevole, sebbene non facente parte della nostra cultura e tradizione. Da molto tempo l’olio di canapa viene invece usato per produrre vernici, coloranti, saponi, creme per massaggi ed emulsioni farmaceutiche. Quando poi si illuminavano le case con le lucerne, queste venivano alimentate soprattutto con olio di canapa o di lino. Inoltre dalla fibra della canapa si ottiene una cellulosa molto adatta a produrre carta fine, mentre dalla parte legnosa se ne ottiene un tipo più scadente, con un processo in atto sin dal XIII secolo.
Le grandi industrie preferiscono tuttavia utilizzare per questo scopo alberi di alto fusto; certamente per motivi economici, ma non è escluso che in futuro si possa cambiar rotta, se mai si dovessero mettere sul conto considerazioni di carattere ecologico e ambientale.