L’uomo... o il diavolo di Sartre
La solida traduzione del Teatro Arsenale del difficile ma stimolante "Diavolo e il buon Dio" di Jean Paul Sartre.
Portare in scena Sartre è una scommessa: si rischia, avvertivamo nella presentazione, d’alleggerire troppo o appesantire oltre misura. Rendiamo perciò merito al Teatro Arsenale, che evita abilmente le trappole di questa pièce concitata e filosofica in dosi (quasi) uguali, trovando il giusto mezzo tra azione e ideologia.
La regia solida di Annig Raimondi restituisce appieno la complessità, supportata dall’agile traduzione di Dessì e dall’adattamento di Bignamini. Anche la compagnia è all’altezza e, in qualche caso, lascia il segno come il delirante Goetz di Magherini, la pragmatica Hilda della Raimondi, il sanguigno Karl di Campanaro. Interessanti le soluzioni figurative, a partire dai costumi dimessi di Nir Lagziel, che punta l’occhio solo sulla prostituta. Le scene, spoglie al limite del minimalismo, sono "universali" poiché rappresentano ogni ambiente: lastre imbrattate evocano tanto l’invetriata di una chiesa quanto un graffito sulle mura della città assediata. Interno ed esterno arrivano a coincidere fisicamente oltre che psicologicamente; come a dire che le leggi del caso, del destino, del libero arbitrio valgono ovunque senza eccezioni di classe, sesso, età. I personaggi sono anche individui, ma non solo: rappresentano ciascuno un volto, un diverso agire e pensare del genere umano; anzi, sono essi stessi il genere umano con le sue sfaccettature, le sue contraddizioni insanabili, la sua disperazione senza fine.
La conversione di Goetz non ha il senso salvifico dell’Innominato manzoniano. Il cielo è un buco, è solitudine, tanto che il protagonista afferma: "Ho ucciso Dio perché mi allontanava dagli uomini". Il silenzio di Dio si alterna fra ateismo e teodicea. Prevale il primo: i personaggi - e l’autore - preferiscono l’assenza, la morte d’un Creatore mai esistito, all’idea che Egli abbia davvero plasmato il mondo per abbandonarlo e inventato il "desiderio del Bene" ma reso impossibile il "Bene". Alle vie imperscrutabili d’un Dio oscuro (se non sadico come quello dipinto da Al Pacino ne "L’avvocato del Diavolo"), l’uomo trova più dolce, più ragionevole decidere da solo la propria sorte, se cadere o rialzarsi, almeno finché gli eventi glielo consentono. Una tesi che ricorda il dialogo-chiave de "L’ultimo samurai": "Credi che un uomo possa vincere il suo destino?" "Credo che un uomo faccia ciò che può, finché il suo destino non si rivela".
Ma Goetz impara troppo tardi che l’utopia è tale proprio in quanto non si può realizzare e deve, dunque, restare un sogno intentato. Le sue scelte uccidono gli inermi abitanti della Città del Sole: Dio non gioca a dadi con l’universo né con gli uomini o con lui. Cedendo alle illusioni, siamo tutti capaci di condannarci da soli assieme al nostro prossimo.