Dopo la Michelin
Dopo chiusure e delocalizzazioni, il sistema delle imprese trentine alle prese con la globalizzazione. Sulla soluzione tutti concordano, istruzione e innovazione, ma ci si punta davvero? Le chiacchiere sulla ricerca in cosa si traducono? Il triste esempio della connessione con fibre ottiche, data per importantissima ed imminente nel 2003, impantanata e di fatto abbandonata nel 2004.
La Cina è vicina titolava un film di quarant’anni fa. E oggi lo è molto di più. E pure l’Ungheria è vicina. E il Trentino incomincia ad inquietarsi.
Il trasferimento dello stabilimento della Michelin in Ungheria è stato vissuto come un campanello d’allarme; anzi, una sirena. Di fronte alla globalizzazione, alla concorrenza dei paesi dove si lavora tantissimo e ci si accontenta di pochissimo, è attrezzata l’industria trentina? Le chiusure non rischiano di susseguirsi, una dopo l’altra?
Il caso Michelin, di per sé, non è molto significativo, pur con tutti i costi umani (su cui torneremo) che sempre comporta la fine di un’attività produttiva. La multinazionale francese, infatti, a Trento ormai faceva una porzioncina di lavoro all’interno della filiera: produceva un cavo metallico che poi veniva lavorato in Ungheria, e quindi riportato in Italia e utilizzato negli stabilimenti di Torino e Fossano; era nella logica delle cose che il poco qualificato lavoro nel capannone trentino, fosse accorpato nel molto più importante stabilimento ungherese. E questo indipendentemente, ahimè, dalla produttività trentina, che l’azienda riconosce essere esemplare.
Ma qui sta il punto. Il problema non sta, come stoltamente hanno affermato qualche industriale e l’assessore Benedetti, nei lavoratori o nei sindacati; se anche avessero accettato peggiori condizioni di lavoro e di vita, la situazione non sarebbe mutata. La sorte della fabbrica era segnata.
Ma quante altre realtà sono in condizioni analoghe? Quanto è generalizzabile questa situazione?
Queste le domande che fanno tremare.
E’ da diversi mesi che la Cgil solleva queste preoccupazioni (Industria trentina a rischio?), alle quali però industriali e assessorato competente replicano con alzate di spalle, o peggio (accuse di "fare del terrorismo"). Ora la domanda si pone più stringente.
"Il caso Michelin è fisiologico: non si può produrre in Trentino, come del resto in Italia, quello che si può produrre, a ben altri costi, in Cina – ci dice Michele Andreaus, professore associato di Economia Aziendale all’Università di Trento – La competitività basata sui bassi costi non esiste più: difatti è stata il volano e ora la causa della crisi del Nord Est. E nel Trentino sono a rischio le produzioni che sono meri assemblaggi e quelle legate alla meccanica tradizionale".
Il sindacato conferma le sue preoccupazioni: "C’è il problema del settore tessile, da cui si sta uscendo con la delocalizzazione. La quale non è comunque da demonizzare: a questo punto spostare la produzione nei paesi dell’Est e mantenere qui la testa è una soluzione che va bene – afferma Ruggero Purin, segretario della Cgil – Poi nel metalmeccanico il discorso è articolato: la Whirlpool non preoccupa nel breve periodo, ha qui un centro di ricerca, ma ha anche stabilimenti in Polonia e Turchia, e nel lungo periodo si vedrà; la Dana continua ad investire, fornisce prodotti di qualità, ci sembra molto solida; altre situazioni invece possono essere problematiche".
Anche l’Associazione Industriali abbandona le minimizzazioni di alcuni mesi fa: "Il caso Michelin non è da generalizzare; però ci deve far riflettere – commenta Fabio Ramus, direttore della Confindustria trentina – Anche se, da che mondo è mondo, le aziende aprono, si sviluppano, chiudono, si spostano.".
Siamo d’accordo con Ramus. E’ normale che una fabbrica chiuda. Anzi, forse è positivo: il ricambio del tessuto economico è indice di vitalità. Ma ci sono due però. Il primo è dato dai costi umani che una chiusura comporta. Il secondo è che una serie di chiusure non è più fisiologica: può indicare la crisi di un territorio, e infatti, da che mondo è mondo, oltre alle fabbriche che si sviluppano e poi chiudono, ci sono anche i territori che si sviluppano e poi degradano.
Sul primo punto, i costi umani, dovrebbe valere lo slogan sindacale "accettiamo la mobilità, ma da posto di lavoro a posto di lavoro, non dal lavoro alla disoccupazione". Nel Trentino della piena occupazione, dei fax delle associazioni imprenditoriali che invocano maggiori quote di immigrati, lo spettro della disoccupazione dovrebbe essere solo un ricordo. E invece aleggia, e inizia a diventare inquietante.
Il fatto è che chi perde il lavoro a una certa età, senza titoli di studio, è difficilmente riciclabile. Manca una formazione professionale che permetta di passare da un lavoro all’altro. "E’ il problema della formazione continua, per esempio ogni anno due settimane per tutti, dal dirigente all’operaio, per aggiornarsi, per flessibilizzarsi – afferma Andreaus - Ma sono cose rimaste sulla carta. E così si hanno rigidità nella forza lavoro e nella struttura produttiva, e si creano i problemi umani. Per esempio: non ha senso l’acciaieria di Borgo, una mostruosità antieconomica, assistita e ambientalmente dannosa. Ma non si può chiuderla perché si genererebbero problemi sociali".
"Sì, la formazione continua langue nell’industria, anche se finanziata dal Fondo sociale Europeo – ammette Purin – E oltre alla formazione collettiva, anche quella individuale, attraverso le 150 ore, che oggi sono un buco nero. In questo, ne convengo, c’è anche una nostra responsabilità".
"Manca a tutti, a noi, alle imprese e soprattutto alla pubblica amministrazione, una visione generale, un riconoscimento nei fatti dell’importanza di questo aspetto – conviene Ermanno Monari, segretario della Uil – Sia per rafforzare la struttura produttiva, per prevenire le chiusure, sia per attutirne gli effetti quando avvengono".
Proprio il problema della formazione rimanda a quello più generale: la competitività del territorio, la capacità di spostare/qualificare la produzione verso i settori più innovativi, nei quali si abbia un consistente vantaggio competitivo rispetto ai paesi emergenti. Ricerca, innovazione… è il ritornello che si sente in continuazione.
Esempi ce ne sono: basti pensare alla Metalsistem, che ha qualificato il proprio prodotto, banalissimi scaffali, destinati ad essere travolti dalla concorrenza dei nuovi paesi, in sistemi di gestione automatizzata del magazzino.
E come la Metalsistem ce ne sono diverse. Ma il punto è il sistema complessivo delle imprese trentine. Come si sta orientando? O meglio: c’è effettivamente una politica in grado di creare un contesto favorevole all’innovazione?
Purin e Monari si mostrano scettici: "A parte alcune imprese, poche, che hanno lodevolmente investito in innovazione, le altre hanno impiegato i profitti in operazioni finanziarie o immobiliari. Ma la responsabilità maggiore è della pubblica amministrazione, che non verifica i risultati dei fondi stanziati per la ricerca; che non si accorge che l’Agenzia per lo Sviluppo fa solo attività immobiliare, invece di selezionare e finanziare i progetti meritevoli; che da trent’anni chiacchiera sulla produzione locale, le filiere del legno e del porfido, e da trent’anni non conclude alcunché".
"In Italia, se escludiamo la farmaceutica, un’impresa al massimo investe il 3-3,5% del fatturato in ricerca – afferma Andreaus – Il che vuol dire che solo le grandi imprese oppure le piccole consorziate nei distretti industriali, fanno investimenti significativi. In Trentino abbiamo solo piccole imprese, che possono investire poco, con risultati non all’altezza. Per questo sarebbe importante che si potessero integrare con il lavoro dei centri di ricerca. Ma questi, come peraltro nel resto d’Italia, vanno avanti per la propria strada, portando avanti per proprio conto propri progetti".
E lo si è visto in questi giorni, con l’insorgere degli istituti di ricerca, quando l’assessore Salvatori ha ipotizzato una strategia provinciale che ne stabilisca gli indirizzi generali.
In effetti Gianluca Salvatori, assessore alla ricerca e all’innovazione tecnologica, sta lavorando per costruire un distretto industriale che coniughi ricerca e produzione nel campo delle tecnologie ambientali. "E’ un discorso precedente alla Michelin, che è solo l’ultimo di una serie di campanelli d’allarme – ci tiene a precisare l’assessore – Il nostro indirizzo è fornire gli strumenti perché si sviluppino e si evolvano imprese che utilizzino nuove tecnologie ambientalmente corrette: quelle delle costruzioni con la bio-edilizia, quelle che sfruttano le energie rinnovabili come l’eolica, la solare, fino all’idrogeno… In questa maniera sfruttiamo anche quello che è l’atout del Trentino, l’ambiente, per il quale siamo riconosciuti all’esterno. Ed è un discorso che è sinergico con il turismo: ne riceve immagine e fornisce contenuti".
In realtà le imprese di costruzioni trentine finora hanno brillato nel chiedere interventi protezionistici dalla Pat, nel non dover competere negli appalti… "Ma così non vanno da nessuna parte! – replica l’assessore – Se invece veicolano innovazione tecnologica possono diventare punto di riferimento in Italia".
"E’ effettivamente un settore in cui ci può essere notevole valore aggiunto – ci dice Andreaus – Perché c’è forte innovazione, perché si innesta in un punto forte delle possibilità del Trentino. Certo, si deve cambiare rotta. Per esempio, la Provincia, invece di dare contributi alle funivie decotte, dovrebbe finanziare il recupero di un’area turistica per farne una zona senza auto: si avrebbero nuove imprese, nuova tecnologia. Fatte le debite proporzioni, è quello che fa l’America con le commesse all’industria militare e spaziale, con l’innovazione che si ripercuote in tutto il contesto. Solo che noi investiremmo nell’ambiente invece che nell’esercito".
Ma il Trentino è disposto realmente a scommettere sull’innovazione? Ci è sembrato sommamente deludente la lezione che sono sembrati trarre gli industriali dal caso Michelin, con le accuse dell’ex-presidente Marangoni (per non parlare dell’assessore Benedetti) al sindacato, invocando più flessibilità, addirittura l’articolo 18, ecc. Quando invece la stessa Michelin, nel comunicato che annuncia la chiusura, afferma "Grazie all’impegno, alla partecipazione, alla flessibilità del suo personale, lo stabilimento di Trento ha realizzato livelli di produttività e di qualità al limite delle possibilità tecniche. Non è pertanto più possibile fare recuperi di produttività e riduzione dei costi che permettano di recuperare la competitività". Insomma, da Trento, per quanto si sia disponibili, non è possibile strizzare di più, dice la multinazionale francese.
Ed è grave se gli industriali trentini non capiscono il senso di questa vicenda. "Sì, sarebbe molto grave – conferma il prof. Andreaus – Vorrebbe dire che si punta non sull’innovazione, ma sul contenimento dei costi: una strada assolutamente impraticabile".
I sindacati sono molto cauti: "Quella di Marangoni la prendiamo per una sparata occasionale. Confidiamo che questo non sia il pensiero né suo né di Confindustria" – ci dicono sia Monari che Purin.
"Non può che trattarsi di un malinteso giornalistico – conferma il direttore di Confindustria Ramus – Gli industriali trentini hanno mantenuto buone relazioni con i sindacati anche durante i tempi burrascosi (a livello nazionale) sull’articolo 18; sarebbe paradossale pensare che ora, quando in Italia si è cambiato rotta, noi qui volessimo lo scontro. E in quanto a Marangoni, per lui parlano i suoi investimenti nell’innovazione, in azienda e nella ricerca sull’idrogeno".
Rimane il fatto che il contesto trentino non sembra aver favorito la nascita di una diffusa imprenditorialità legata all’innovazione.
"Non è una situazione drammatica. Però non è neanche il caso di fare gli struzzi – precisa Ramus – Noi, non da oggi, chiediamo più ricerca, più istruzione e più infrastrutture, sia hard, cioè vie di comunicazione, che soft, cioè connessioni telematiche; e un’Autonomia che sappia accompagnare e non ostacolare con la burocrazia, lo sforzo delle aziende. E vorremmo che si riconoscesse la centralità dell’industria se si vuole davvero un Trentino competitivo, agganciato alla ricerca".
Su quest’ultimo punto abbiamo dei dubbi. Ci sembrano cioè prevalere ancora le ragioni del vecchio, l’inerzia degli assistenzialismi. Il caso sempre scottante è la predilezione provinciale per il turismo assistito degli impianti funiviari, in perdita ed obsoleto; e la parallela sfiducia nell’innovativo turismo soft, con buona pace delle ipotesi del prof. Andreaus.
[/a]Ma su questo argomento ci possono essere ulteriori esempi, ancora più eclatanti. Ne riportiamo qui uno semplicemente scandaloso: le reti di telecomunicazione. Nel 2000, la Pat, in un apposito atto di indirizzo, pomposamente afferma che "la diffusione delle infrastrutture delle reti di telecomunicazione può e deve essere un fattore decisivo per la crescita della competitività dell’intero sistema di un’area territoriale, come quella trentina". Non solo: con le possibilità aperte dalle comunicazioni via fibra ottica, "si offrono agli utenti delle possibilità mai esplorate finora che toccano tutti i campi della vita sociale: la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione, le modalità di produzione e di commercializzazione delle merci e dei servizi, il tempo libero, le grandi infrastrutture, la vita privata delle persone".
A tal fine si programma "l’estensione dell’attuale ADSL a tutto il territorio provinciale" entro il 2003, e la realizzazione di una nuova infrastruttura a fibre ottiche entro il 2006.
Bene. Nell’ottobre del 2003, visto che non si è fatto molto, un nuovo atto di indirizzo ribadisce tutte le chiacchiere iniziali, ma ridimensiona bruscamente gli obiettivi: ADSL entro il 2006, fibre ottiche rimandate sine die. Oggi, 2004, sono commessi con l’ADSL solo 28 comuni trentini.
E’ un caso? No, è l’inerzia di fronte al nuovo. In Provincia hanno fatto i calcoli, e risulterebbe che a portare a termine il progetto originario – tutto il Trentino connesso con fibra ottica – si dovrebbero spendere 100 miliardi. Troppi.
Mentre se ne stanno spendendo 3.000 per nuove strade. "Ma sono soldi che vanno alle imprese trentine!" - ha replicato Dellai.
Appunto. Si preferisce assistere il vecchio invece di lavorare per il nuovo.