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QT n. 12, dicembre 2012 La storia

C’era una volta il lavoro

La Gallox di Rovereto negli occhi di Giuseppe, operaio emigrato dal sud Italia in Trentino a cercare un futuro che non c’è più...

Foto di Veronica Pancheri

Ciò che ha stupito tutti in Trentino, dall’opinione pubblica, alla stampa, all’assessore provinciale all’industria, perfino i sindacati, nella vicenda della Gallox, il gruppo roveretano di lavorazione dei metalli, entrato ufficialmente in crisi negli ultimi due mesi, è stata la compostezza dei lavoratori. Centoventidue in totale, che non percepiscono stipendio dallo scorso maggio.

Una storia di ordinaria crisi aziendale all’interno della quale non è affatto facile districarsi nelle cause e concause che hanno portato allo stato attuale: calo di commesse, perdita di competitività rispetto a concorrenti agguerriti, magari esteri, clienti che non pagano. Un insieme di fattori che, complice la crisi globale e nonostante gli ingenti finanziamenti pubblici (lease back provinciale di 12,4 milioni di euro per l’acquisto dei capannoni ed erogazione del fondo Olivi), fino ad ora non è riuscito a trovare uno sbocco.

“Fino ai primi mesi del 2011 è andato tutto bene - racconta Giuseppe, 35 anni, uno dei turnisti della Gallox (il nome è di fantasia, per quel senso di rispetto e riservatezza nei confronti delle disgrazie altrui che questo giornale vuole garantire al protagonista di questa storia), - poi è iniziata un’ escalation di erogazioni a singhiozzo degli stipendi, al 10 del mese successivo a quello lavorato arrivava un anticipo e il saldo a fine mese, poi saldi sempre più rari. Da maggio 2012 più nulla, soltanto cedolini paga, senza alcun corrispettivo in denaro”.

Giuseppe lavora da quando aveva tredici anni, ai mercati generali della sua città, al sud, molto al sud. Cinque fratelli, orfano di padre, Giuseppe a vent’anni decide che una vita senza diritti, con il solo dovere di correre a caricare e scaricare a qualsiasi ora del giorno e della notte, appena il padrone chiamava, senza uno straccio di tutela e un salario da fame, non era vita. Grazie all’interessamento di una zia che abita in Trentino, nel 1998 arriva in Vallagarina e dopo un paio di esperienze poco significative, entra in Gallox nel 2002.

“Quando è arrivata la prima busta paga volevo incorniciarla, ho pensato che avrei dovuto ringraziare qualcuno - santi neanche a parlarne, non sono credente - ma la buona sorte, la fortuna e forse me stesso, per aver scelto il Trentino”.

Giuseppe ha due figli, una ragazza alla scuola media ed un bimbo di pochi giorni, uno sguardo introspettivo e l’eloquio di una persona assennata, quasi fosse lui a dover rassicurare me.

Nel silenzio calato all’improvviso dopo qualche battuta scherzosa davanti ad un caffè gli chiedo con un filo di voce come abbia fatto a reggere per tutti questi mesi.

“Mia moglie ha un part time ed ora è in maternità, quindi in casa entra mezzo stipendio, che se ne va tutto per la casa, poi c’è un piccolo contributo provinciale, l’assegno di integrazione all’affitto. Per il resto, qualcosa avevamo da parte, l’aiuto dei parenti, mia madre, mia suocera, gli amici, ma ora sinceramente abbiamo esaurito la lista delle persone che possono dare una mano. Non abbiamo diritto al reddito di garanzia, la nostra è ancora una posizione lavorativa, nella quale può inserirsi la Provincia con un fondo straordinario”.

E in effetti il fondo è stato deliberato dalla Giunta Provinciale, entrerà nella finanziaria 2013, ma fino ai primi mesi di gennaio non potrà essere erogato.

Non sei un po’ arrabbiato con l’azienda?

“Il fattore umano alla Gallox è sempre stato al primo posto, i titolari mi hanno sempre trattato con rispetto ed io credo che anche per loro la situazione sia drammatica. Inoltre ho una moglie meravigliosa, con la quale condivido le ansie, i dispiaceri, le attese, le disillusioni. Ci aiutiamo, tentiamo di sorreggerci a vicenda. Questo bimbo arrivato inaspettatamente ci dà la forza di affrontare le difficoltà. Combattiamo per i nostri figli e cerchiamo di essere sereni”.

E il futuro come lo vedi? Una volta conclusa questa vicenda che pensi di fare?

“Vorrei proprio prendere il diploma; ho provato ad iscrivermi all’Istituto Tecnico Marconi, avevo già presentato le carte, parlato con un professore, ma il lavoro è su turni e non posso garantire una frequenza, nemmeno ai corsi serali. E poi ora c’è anche il piccolo e quando mia moglie tornerà al lavoro, qualcuno dovrà accudirlo”.

Quando dice “lavoro” sembra quasi che quella parolina magica gli resti tra i denti, depotenziata nel tono vocale. Capisce che l’ho notato, mi guarda e abbozza un sorriso amaro.

“Lo so, non si può chiamare lavoro questo, non puoi alzarti ogni giorno e andare in fabbrica sapendo che non verrai pagato, ma è stato il mio lavoro, per 10 anni, il lavoro con il quale avevo costruito il sogno di un futuro. Ed io continuo a sperare, ad alimentare quel sogno, anche se so perfettamente che non esiste più. Tutti noi lo sappiamo, ma continuiamo a lavorare, fino a quando si apriranno quei cancelli, fino a quando qualcuno non ci dirà che è morta anche la più piccola speranza, allora vedremo il da farsi. Ci sono colleghi in situazioni anche peggiori della mia. E allora, quando ci diranno che non c’è veramente più nulla da fare, ci auguriamo che entrino in campo finalmente i nostri diritti. Tutti sanno che le procedure partono quando il Giudice le autorizza”.

Già, diritti delle aziende e diritti dei lavoratori, la legge italiana concede alle industrie la possibilità di vagliare alternative al fallimento ed esistono strumenti come il concordato preventivo che concedono i tempi tecnici per trovare una soluzione, ma per i lavoratori?

C’è la cassa integrazione ordinaria e poi, in ultima istanza, la straordinaria, ma in Trentino, a fronte di contributi ingenti concessi alle aziende con l’impegno di mantenere i livelli occupazionali, forse varrebbe la pena verificare se questi impegni hanno possibilità concrete di essere onorati.

Poi, naturalmente, esistono imprenditori e imprenditori, quelli disonesti che allungano i tempi per distrarre fondi e poi far fallire l’azienda, infischiandosene dei dipendenti, e imprenditori onesti che, nel tentativo di salvare capra e cavoli, mettono a repentaglio tutti i loro beni. Ma un dato è certo: il pesantissimo carico delle agonie aziendali, con tutte le relative drammatiche conseguenze, nella stragrande maggioranza dei casi lo portano sulle spalle i lavoratori.