Medardo Rosso al Mart
L'opera di Medardo Rosso, il suo ruolo centrale nella scultura a cavallo dell'800-'900, i suoi limiti, in una belle, istruttiva mostra al Mart di Rovereto.
Detto con le sue parole, il problema di Medardo Rosso, in scultura, "è di far dimenticare la materia". Affermazione che può apparire paradossale, perché molte sue opere, e certo le più innovative, fanno uso di una materia mossa, densa, non finita.
La mostra che gli è dedicata al Mart (Rovereto, fino al 22 agosto) arriva un quarto di secolo dopo l’ultima grande esposizione italiana su questa figura cruciale per la scultura non solo nazionale, tanto è vero che all’estero varie mostre si sono susseguite negli anni recenti ed una è attualmente in corso a Dallas.
Per far intendere la posizione particolare che Medardo Rosso assume nello sviluppo dell’arte, Luciano Caramel, curatore della mostra, ricorre ad un paragone: egli svolge in scultura un ruolo simile a quello di Cézanne in pittura. Vale a dire: come Cézanne, forzando le conquiste dell’impressionismo e mettendo pur senza negarle in discussione certe convenzioni prospettiche, diventerà un riferimento importante dell’avanguardia cubista, così, su un altro piano, Medardo col suo trasferire in scultura la volontà impressionista di trasmettere la sensazione immediata e soprattutto di fondere figura e ambiente, produrrà fertili riflessioni nell’avanguardia futurista.
Ne sono prova le parole, illuminanti, che Boccioni gli dedica nel 1912, individuando aspetti innovativi ma anche limiti che a suo avviso permangono nell’esperienza di Rosso: "Ha tentato di dare alla scultura un campo più vasto, di rendere con la plastica le influenze di un ambiente, ma la natura impressionistica del tentativo ha limitato le ricerche ad una specie di bassorilievo o altorilievo...". E ancora: "La rivoluzione di Medardo Rosso, per quanto importantissima, parte da un concetto esteriormente pittorico, trascura il problema d’una nuova costruzione di piani e il tocco sensuale del pollice, che imita la leggerezza della pennellata impressionista, dà un senso di vivace immediatezza, ma obbliga all’esecuzione rapida dal vero". (Sui rapporti e le differenze tra Medardo e i futuristi, si diffonde un interessante saggio di Giovanni Lista, in catalogo).
Il primo nucleo di opere in mostra documenta gli anni della formazione. Nato nel 1858 a Torino, ma poi cresciuto a Milano dal 1870, Rosso respira pienamente il clima della Scapigliatura, facendo propri sia i temi del verismo sociale sia i modi di una modellazione vibrante, emozionata, come quella dello scultore Giuseppe Grandi, che possiamo qui pure osservare e confrontare. Medardo passa dal gusto ancora aneddotico di figure (in piccolo formato: la sua scultura rifiuta fin dalle origini il monumentale) come "Cantante a spasso" e "Gli innamorati" a ricerche che privilegiano la mimica del volto. E qui possiamo apprezzare un continuo e progressivo spostamento dal piacere descrittivo e socialmente connotato ( "El locch", "La vecchia", "Il vecchio") a modi più sfumati e sintetici ("Il birichino"). Fino ad introdurre un cambiamento che costituisce una evidente svolta linguistica: ed è il rifiuto del "tutto tondo", che tuttavia si svincola dalla tradizione del bassorilievo perché - come vediamo nell’opera emblematica "Carne altrui" (1883-84) - punta soprattutto a superare l’isolamento della figura nello spazio, a rendere percepibile la sua connessione con l’ambiente. Per questo, senza smettere la ricerca sui tratti fisionomici - e del resto anche il contenuto di denuncia sociale, in questo caso di compassione per la prostituta, che distingue in modo non marginale la sua sensibilità da quella degli impressionisti - l’artista cerca di compensare la descrittività con l’immergere quel volto nel fluttuare della materia. Le opere sono presenti in più versioni, spesso anche in cera, un materiale molto amato da Rosso che se ne serviva in alternanza col bronzo.
Dal 1889 Rosso si trasferisce stabilmente a Parigi, dove rimane per alcuni decenni. A contatto con le più avanzate ricerche post-impressioniste , e continuamente stimolato dal confronto-antagonismo con l’altro grande della scultura, Rodin, egli porta all’estremo le sue scelte contro la statuaria convenzionale. Ne abbiamo prova in opere come "Bambino alle cucine economiche" (1892-93), una scultura così radicalmente pensata per una visione frontale - oltre che dimentica di intenti descrittivi - da sembrare un tentativo di tradurre il linguaggio pittorico in quello plastico. Ci fu, tra i suoi contemporanei, chi gli rinfacciò proprio questo, l’impossibilità, a loro parere, di applicare al mezzo scultoreo i principi linguistici della pittura. Ma c’era anche chi metteva in dubbio, di fronte a quel suo modellare irregolare, le sue capacità: ed è forse questa una delle ragioni che spiegano un capitolo per certi versi sorprendente della sua produzione, quelle copie dall’antico (scultura ritrattistica romana, Donatello) che egli talvolta esponeva accanto alla sua più personale, ottenendo però al tempo stesso il risultato che più gli stava a cuore, e cioè sottolineare per confronto l’innovazione del suo linguaggio.
Il percorso si conclude con "Ecce puer", del 1906, opera considerata un capolavoro, che va oltre la ricerca dell’impressione, in cui il trattamento della materia evoca quasi un sudario, un senso di sofferenza e di ascesi.