“Primavera, estate, autunno, inverno...”
Il film del coreano Kim Ki-duk: estetico, formale, eppure intenso, con le sue false piste, i piccoli shock per lo spettatore, la densità dei contenuti.
Il coreano Kim Ki-duk, il cui nome non gode ancora di una grossa popolarità, è già uno dei registi più interessanti del panorama internazionale. Prolifico, eclettico, coerente, Kim Ki-duk ha finalmente trovato una distribuzione italiana per il suo ultimo film, "Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera".
Il film è diviso, come suggerisce il titolo, in cinque episodi, le quattro stagioni e una primavera che segna l’inizio di un nuovo ciclo. Racconta la storia di due monaci, un giovane e un anziano, che abitano una casa-zattera in un lago sperduto fra i monti. All’apparenza, nulla sembrerebbe turbare la loro ricerca dell’illuminazione e dell’astrazione dalle cose terrene. E invece…
Siamo abituati a pensare le stagioni come fattore di continuità. Sfumano l’una nell’altra, scandendo e regolando l’invisibile scorrere del tempo. Il film di Kim Ki-duk, invece, crea già in questo un primo senso di spiazzamento: le cinque stagioni non sono contigue ma distanti; da una stagione all’altra passano sempre diversi anni. Se in primavera il monaco è bambino, in estate è già un giovane adulto. L’autunno e l’inverno lo invecchiano ulteriormente. La continuità delle stagioni è una non continuità. Ma questo è solo il primo di una serie di piccoli shock che ci offre il film, estetico, paesaggistico, formale eppure così intenso e pieno di contenuti.
A partire dalla rottura della continuità nel ciclo delle stagioni, il film ci fa imboccare infatti una serie di false piste. Progressivamente, ci svela quanto sia ingannevole l’apparenza delle cose, come in una storia Zen in cui il maestro pone il quesito all’allievo, l’allievo risponde con una riflessione che sembra sensata e invece è subito corretta dal maestro che regala al discepolo un insegnamento più profondo. Kim Ki-duk si pone nei nostri confronti proprio come un maestro buddista. Costruisce il suo film come un apologo, conquistandoci con quella chiarezza mentale che viene attribuita - quasi sempre, ormai, come luogo comune - alla spiritualità d’Oriente.
Un’altra delle false piste su cui il film ci incammina è quella della collocazione della storia in una dimensione atemporale: vediamo una valle, un lago sperduto, ci sembra di trovarci nell’età dell’oro, in un Eden imprecisato. Basta invece lasciar passare una stagione per capire che siamo nel mondo, non fuori dal mondo, e nel nostro tempo. Una falsa pista è anche quella dell’idillio, dell’estraniamento: il paesaggio è stupendo, la casetta in mezzo al lago pure, i monaci si spostano su una barchetta, sembra che vivano in una favola... E invece, stagione dopo stagione, ci si rende conto di come la violenza e il pentimento debbano irrompere con forza anche in questo luogo protetto dalla natura. Il film, anzi, ci costringe a un certo punto a guardare indietro, a scoprire che anche in principio, quando sembrava che i cancelli dell’Eden non fossero stati violati, si era già insinuato in quel mondo un seme di violenza. La scena fondante l’episodio di partenza, la prima primavera, è quella del monaco bambino che tormenta tre animali del bosco, il pesce, la rana e il serpente. Il bambino lega con un cordino un sasso alla schiena dei tre animali: il sasso consente di muoversi o nuotare, ma con un sforzo che rende loro troppo difficile vivere. Questo gioco infantile, crudele e innocente, costerà al piccolo monaco una karmica condanna.
Per Kim Ki-duk sembra quasi un ravvedimento. Una delle peculiarità del suo cinema - che tanto fa parlare le croniste festivaliere alla Natalia Aspesi - è proprio questa della violenza sugli animali: ne "L’isola" (2000), i pesci muoiono esibendo in modo terribile la loro sofferenza; in una scena di culto, un uomo pesca un pesce, ne tagliuzza il fianco, mangia il "sushi" e poi ributta il pesce in acqua. Lungo tutto il film, vediamo questo pesce sfiancato che continua a nuotare, indifferente, in apparenza, alla sua mutilazione. Anche "Indirizzo sconosciuto" (2001) aveva suscitato al festival di Venezia un forte scalpore perché - appena fuori scena - vengono macellati dei cani ad uso alimentare. In "Primavera, estate…" Kim Ki-duk ci spiega invece che si finisce prima o poi per pagare le conseguenze di ogni inutile sofferenza inflitta. Ma nel cinema di Kim Ki-duk la voglia di far male è soprattutto bisogno di far del male a se stessi.
L'ultima stagione, la quinta, la nuova primavera, ci riporta alla stessa situazione dell’inizio. Tutto è uguale e invece tutto è cambiato. I protagonisti e le circostanze sembrano essere equivalenti, ma noi spettatori non possiamo più leggere la scena come l’avevamo letta all’inizio. Il film continua a dirci "e invece": sembra che sia così, e invece è molto diverso e più complesso di come appare. Tutto viene messo in discussione, anche il senso dell’ascesi, del vivere appartati. La serenità spirituale è una promessa non mantenuta. La religione che garantisce la pace interiore risulta svuotata dei suoi contenuti.
Eppure, alla fine, un raggio minimo di speranza è affidato, nell’ultima inquadratura, proprio a un elemento allo stesso tempo estetico e religioso: una statua del Budda ora veglia sul lago e sui suoi due abitanti dalla cima impassibile di una delle montagne.