L’irresistibile caduta di Keith Emerson
Ovvero: i devastanti effetti della presunzione. Soprattutto fra gli artisti.
Mi è capitato di intravvedere tra gli spezzoni fuori programma di RAI3 un frammento della sigla di "Odeon, tutto fa spettacolo", il glorioso programma che per la prima volta mostrò in tv le tette delle ballerine del Crazy Horse. Ve la ricordate la sigla finale? C’era una fighetta che sculettava e lanciava moine a un pianista-cowboy che suonava un ragtime di Scott Joplin. Lui, il pianista, era Keith Emerson, idolo della mia gioventù di studentello di Conservatorio. Quando appariva in quei panni tipo Ringo (sarà stato il ‘77), era già un astro in declino, come confermava la sentenza lapidaria dei miei compagni di liceo: "Emerson non lo caga più nessuno".
La cosa mi feriva, ma era la verità. Eppure fino a qualche anno prima era considerato un dio del rock, il tastierista per antonomasia. Un pianista notevole: si muoveva ritmicamente sugli accordi come e meglio di Elton John, ma poi sapeva jazzare (e lo faceva con uno stile tutto suo), e inoltre eseguiva senza complimenti il repertorio classico da Bach a Bela Bartòk, con buona tecnica e incisività. Ma suonava pure l’organo Hammond come nemmeno il grande Brian Auger. Emerson l’organo lo dominava con tecnica jazzistica (alla Jimmy Smith) e se lo divorava con un’aggressività tutta rock e un sound inconfondibili. Ma ciò che lo ha reso "archetipo del tastierista", è stato il suo uso dei sintetizzatori. I suoni che ha saputo cavare dal Mini-Moog e gli assoli che ci ha ricamato sopra restano modelli di gusto e inventiva.
Nel ’67 Emerson era un giovane pianista inglese di formazione classica che non disdegnava il Jazz, il Pop e il Rock’n roll. Per allora questa polivalenza era eccezionale: lo trovavi col lanternino qualcuno che sapesse suonare una fuga di Bach e subito dopo una canzone dei Beatles. Nella magica Swinging London il giovane Keith si fa notare coi Nice. Suona l’Hammond con un fraseggio ritmico travolgente: alle sue interpretazioni di "I want to live in America" di Bernstein o del "Blue Rondò a la Turk" di Brubeck non si addicono complessi di inferiorità verso gli originali.
Poi nel ’69 l’incontro con Greg Lake e Carl Palmer origina il gruppo rock tra i più importanti e trendy del momento. I primi quattro LP che gli Emerson Lake & Palmer sfornano sono capolavori autentici: il primo (e il più bello) condensa così tante idee tematiche e armoniche, atmosfere timbriche, suggestioni stilistiche (dalla musica colta contemporanea, al Jazz, al Rock inglese più avanzato), che continua a stupirmi ogniqualvolta lo riascolto. Ma in tutti e quattro gli LP ci sono architetture ritmiche complesse che anticipano Frank Zappa. E le armonie, magari costruite su scale modali e intervalli di quarta, sconcertavano molti musicisti rock di quel periodo che avevano già abbastanza grattacapi a far quadrare il giro di do, o giù di lì.
Il pubblico era suddiviso tra gli entusiasti del virtuosismo e quelli che in quel virtuosismo trovavano l’origine di una freddezza che aveva poco da spartire col feeling. In realtà Emerson & Co. non erano grandi perché erano bravi, ma perché la loro bravura gli permetteva di fare delle cose che nel Rock, prima di allora, non aveva fatto nessuno. Con tutto il rispetto per Genesis, Yes e Progressive Rock dell’epoca, gli ELP, quando erano in forma, facevano musica davvero raffinata e non semplicisticamente pseudo commemorativa dell’arte colta.
Dopo quel travolgente momento gli ELP si sono annullati, peggio che fossero morti: non hanno saputo produrre una sola nota ascoltabile. Qualsiasi roba abbiano proposto risulta così incredibilmente stucchevole e lontana dagli esordi per ispirazione, tecnica, intelligenza... che verrebbe da pensare alla genialità dei primi lavori come frutto di un patto col diavolo. La discesa è stata così ripida, rapida e ingloriosa, che nessuno o quasi si ricorda più di loro, rimossi dalla memoria storica degli stessi estimatori di un tempo.
Come è possibile? Parecchi anni fa ho avuto modo di intervistare Keith Emerson. Gli idoli dell’adolescenza stentano a tramontare dentro di noi a meno che non subiamo una forte delusione. E in quella circostanza il mio amato Keith si mostrava come un uomo superbo, pieno di sé, egocentrico. Non tradiva l’intenzione di rapportarsi con l’esterno, non gli interessava sapere ciò che gli succedeva intorno, che cosa pensava la gente, che cosa facevano gli altri musicisti: sfoggiava beata autocontemplazione, forse convinto di bastare a se stesso e che il suo genio fosse in grado di rigenerarsi motu proprio.
Morale: la presunzione, specialmente se sei un artista, può risultare vieppiù dannosa. Può chiuderti le vie d’accesso al cervello e rincoglionirti fino ad azzerare gli effetti delle splendide doti che la natura ti aveva generosamente elargito.