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Metti, una sera a teatro…

Il pur ostico lavoro di Patroni Griffi, dopo trent'anni interroga ancora gli spettatori sui dilemmi esistenziali. Ottima interpretazione e buona restituzione del non facile testo, da parte del Teatro Eliseo.

A più di trent’anni dal primo allestimento, Giuseppe Patroni Griffi ha diretto, ancora una volta, una delle sue commedie di maggior successo, "Metti, una sera a cena". L’opera, pur nella propria coerenza e linearità, si presta tuttavia ad una lettura su piani differenti; fa piacere, dunque, notare come la recitazione del cast e le scene di Aldo Terlizzi abbiano saputo sostenere sul palco la complessità del testo.

Tema portante è la morale, anche se i personaggi appaiono di primo acchito immorali, o meglio, amorali. Al contrario! Nella pièce la libertà, anche sessuale, del singolo non è mai totale, ma deve rispettare le regole del "clan", regole diverse da quelle comuni ma altrettanto rigide e ineludibili, pena la solitudine e l’esclusione di chi le infrange. Lo spirito di gruppo, solo in apparenza "libertino", è in realtà esso stesso una gabbia, quanto di più lontano si possa immaginare dall’anarchia e dall’amoralità. L’equilibrio del "clan" si basa, e non potrebbe essere altrimenti, su un codice etico ferreo, in cui ogni aspetto del vivere viene assimilato e condiviso da tutti o, in qualche caso, passato sotto silenzio come non visto, non sentito. Le vicende ruotano immancabilmente attorno alla tavola e al letto, due luoghi polarizzati che tentano, spesso invano, di stabilire un solido e sincero legame fra la conversazione e il sesso. Tale aspetto è sottolineato sia nelle scene spoglie, giocate sul contrasto fra trasparenza (il salotto) e opacità (lo scantinato), sia sul continuum spazio-temporale che permette ai personaggi di passare da una sequenza all’altra, avanti e indietro nel tempo, senza ricorrere al più facile espediente del flashback e del flashforward. Nulla è davvero evocato o suggerito, ma è anzi sempre agito in un presente che cambia di volta in volta binario. L’impressione, per usare le parole di Szondi, è quella paradossale di "una struttura perfettamente destrutturata".

Già da questo si può comprendere la levatura intellettuale di tale operazione, certo ben poco
immediata per il pubblico, costretto a districarsi fra disquisizioni filosofiche e citazioni ad alta densità. In tale contesto rientra la querelle che vede contrapposti Michele e Ric. Il primo fa lo scrittore di professione, in un’epoca in cui la letteratura contemporanea è inesistente, oltre che piegata alle logiche del gusto e del mercato, le quali vanno sempre più a braccetto. Il secondo invece si guadagna da vivere come marchettaro, orgoglioso di essere un intellettuale dedito al nulla, l’autore di nessun libro. E proprio seguendo il suo ragionamento, Ric porta avanti una feroce, appassionata requisitoria sui volumi che si devono leggere, giusto per informazione, per aggiornarsi, perché sono dei must o dei classici: il piacere della lettura è stato tolto al lettore, così come allo scrittore quello della scrittura. Pertanto il vero intellettuale è colui che ignora o, piuttosto, che si disinteressa al panorama letterario, rifiutandosi di entrarvi in alcun modo.

Date tali premesse, sembra alquanto strano che lo stesso Ric cada nella trappola degli altri personaggi e finisca col citare opere su opere. Ciò invece serve a Patroni Griffi per dimostrare la propria tesi, secondo cui le nostre stesse letture fanno parte dell’equilibrio del "clan" e ne plasmano così l’identità.

Il linguaggio, spesso elevato con rare cadute di tono, è lo specchio di una mentalità borghese che tenta di uscire dal suo laccio grazie a Diderot, Platone, Verdi, Mozart… "Il simposio" (che qui diventa "La cena") e "La repubblica" sono maestri di vita quanto "La traviata" e "Don Giovanni"; ciascuno propone un modello da sposare o ripudiare. L’Occidente borghese, anche quando stabilisce nuove regole e in esse trova una nuova etica e armonia, non può sfuggire alla propria cultura. La sua "distruzione" è possibile solo dall’esterno, per opera di chi non fa parte del "clan", né tanto meno ne condivide i princìpi. La Cina, per esempio, che secondo Max potrebbe un giorno sganciare i suoi ordigni nucleari su Stati Uniti, Russia ed Europa. Quello di Max non è un discorso qualunque, ma sostiene l’assunto dell’autore che, non a caso, usa quasi la stessa espressione che dà il titolo alla pièce: "Metti, un giorno la Cina…". Su quel "metti, una sera a cena" si era fondato l’ordine di un gruppo che per sopravvivere è divenuto da triangolo un quadrato, e da quadrato un pentagono di rapporti, coiti, sentimenti. Su quella stessa frase, cambiata quanto basta con tanto di assonanza, appare invece lo spettro di un angelo vendicatore che potrebbe, però, decidere di non vendicarsi.

Restituire un testo di simile portata, senza appesantirlo né banalizzarlo, non è facile. Patroni Griffi, come trent’anni fa, ci è riuscito grazie a una solida regia, un cast di prim’ordine, scene e costumi funzionali. Caterina Vertova ha sostituito più che degnamente Elena Sofia Ricci, dando a Nina la freschezza, innocenza e lussuria di Nina; mentre Monica Scattini è stata una Giovanna ricca di passione, intelligenza, più o meno fasulla eleganza. Ineccepibile anche la controparte maschile, tra cui spicca, forse, proprio il Ric di Alessandro Averone, che urla la vita e le sue contraddizioni; senza per questo nulla togliere ai bravissimi Stefano Santospago (Michele) e Kaspar Capparoni (Max).

Peccato solo che all’Auditorium i posti siano rimasti vuoti per una buona metà… per quanto "ostico" sotto alcuni aspetti, "Metti, una sera a cena" era un’occasione per interrogarci su chi siamo, per sentirci nudi, per capire che la libertà è un’idea troppo grande per essere racchiusa dentro un codice, ma troppo umana per non esserlo.

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