Vanessa Beecroft, l’apparenza è il tutto
A Rivoli, fino al 25 gennaio, una vasta retrospettiva dell’artista italiana più conosciuta all’estero.
Le opere di Vanessa Beecroft (Genova, 1969), veri e propri tableaux vivants, portano la performance nel cuore della contemporaneità, nei suoi culti (e nei suoi riti) dell’apparenza e dell’appartenenza a rigidi canoni estetici. L’esperienza dell’anoressia porta il segno autobiografico su alcune opere, ma non è che uno dei tanti elementi che entrano in gioco nel trattare la deificazione del corpo, la scissione di questo dall’interiorità, il trattarlo come involucro estraneo, modificabile a piacere, scolpibile con la palestra, la privazione di cibo, la chirurgia estetica, la cosmesi. Questa macchinazione della persona, che cessa di essere individuo per diventare prodotto seriale, multiplo di un modello di volta in volta imposto, è presente già nei titoli che, quasi come un codice a barre, presentano le iniziali identificative dell’artista (VB) seguite da un numero progressivo.
Esploratrice del cosmo femminile, la Beecroft nelle sue performance presenta serie di ragazze, in genere consone a imposizioni di canoni mediatici: giovani, belle (ma d’una bellezza algida) e magre. L’omogeneità all’interno della serie è portata all’esasperazione: l’artista sceglie le modelle da copiosi cataloghi (simili a quelli usati dai rappresentanti di compagnie commerciali) che classificano il mondo femminile per razza, altezza, corporatura, colore dei capelli; a parrucche e truccatori professionisti il compito poi del sottile labor limae, perché nulla dev’essere lasciato al caso. Questi piccoli eserciti di manichini, spesso in una totale nudità perché il corpo come oggetto è spesso il centro dell’opera, hanno pure comportamenti da automi: lo sguardo è perso nel vuoto, mai a contatto con lo spettatore-voyeur e l’immobilità è la prassi, tant’è che si può parlare di vere e proprie performance dell’attesa e della staticità. Evidente la connessione con il mondo della moda, avulso dalla realtà e sempre pronto alla mitopoiesi estetica della corporeità, come con certe forme della metafisica, come i manichini di Giorgio De Chirico, esplicitamente omaggiati in "VB 47", (2001), senza dimenticare i riferimenti a pittura, fotografia e cinema, che specie nelle prime performance è esplicita fonte iconografica: in "VB02" modello è l’eroina de "La cinese" di Godard, in "VB09" l’Edmund di "Germania anno zero" di Rossellini, in "VB21" il riferimento è a "Gruppo di famiglia in un interno" di Visconti.
La costruzione di queste performance non ha nulla d’improvvisato. Punto di partenza è solitamente la semplicità di un disegno, dal quale si elabora poi, tramite una serie di professionalità - dal fotografo al truccatore al costumista, oltre ai collaboratori dell’istituzione ospitante - il progetto definitivo, che, nella sua precisa strutturazione, non necessita di prove. Le regole che le modelle devono seguire sono poche ma rigide: non parlare, non interagire con le altre, non guardare il pubblico, muoversi lentamente, sentirsi (e comportarsi da) oggetto; ovviamente la meccanicità non è sempre possibile e quindi il caso gioca spesso il suo pur minimo ruolo.
Punto di partenza fu, nel giugno del 1993, "VB01", prima performance dell’artista; in essa, accanto a dei disegni, era esposto il Diario del cibo che la Beecroft, colpita da anoressia, aveva composto dal 1983. Attorno ad esso, una trentina di ragazze indossavano i vestiti dell’artista, un autobiografismo che, superata la vergogna iniziale, indicò il tema dell’universo femminile come poetica preferenziale. Da allora le performance sono state oltre una cinquantina, per lo più eventi a sé, pur se talvolta in concomitanza con altri appuntamenti (come in "VB10", ove durante un concerto di musica classica una ragazza rimase seduta, scalza, accanto all’orchestra). La nudità, prima solo accennata dalla lingerie, entra a far parte delle performance a partire da "VB23", tenutasi nel 1996 al Ludwig Museum di Colonia, ma non avrà mai nulla d’erotico o sensuale: i corpi seriali ricordano più astratti manichini che allusioni di carne.
L’autobiografismo in questi teatrini dell’esteriorità assume talvolta dimensioni ossessive. E’ questo il caso dello special project "Sister calendar", ove la sorellastra dell’artista, distesa in un’ambientazione minimal, è ripresa nella stessa posizione in dodici scatti, ognuno caratterizzato da un colore. La rappresentazione della propria vita trova però il clou nello special project "VBGDW", ove ad esser messo in scena, con personaggi in abito bianco di tutte le età, è il proprio - reale - matrimonio, celebrato nel 2000 nella Cappella di S. Sebastiano a Portofino. Più tra arte e vita di così...