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QT n. 17, 11 ottobre 2003 Servizi

Al servizio del malato o dell’Azienda?

I guasti del neoliberismo nella sanità pubblica.

Maurizio Agostini

Mario (il nome è di fantasia) viene inviato in ospedale per un deperimento che si è fatto rilevante in pochi mesi e che si è accompagnato nelle ultime settimane a un dolore non acuto ma persistente ad un fianco. In Pronto Soccorso ritengono la situazione meritevole di uno studio accurato, pensano per un attimo ad un ricovero in Medicina generale, ma il cartello delle disponibilità in quel reparto (i cui posti letto sono in diminuzione costante negli ultimi anni) segnala già quattro pazienti sul corridoio e Mario viene quindi dirottato in un reparto specialistico, coerente con la localizzazione del disturbo lamentato.

In pochi giorni i medici escludono patologie di competenza della loro specialità e dimettono Mario provvedendo a prenotare per lui una TAC, in quanto l’ecografia indicava la presenza di una massa da accertare meglio a carico di altri organi.

L’appuntamento era a distanza di un mese ma Mario, tornato a casa, continua a star male e dopo due settimane la moglie, preoccupata, prenota una visita a pagamento da un internista.

Quest’ultimo, vista la situazione, riesce a combinare un ricovero abbastanza sollecito in Medicina dove, con la rapidità consentita dal regime di degenza, si completano gli accertamenti, si individua il problema e si pone l’indicazione di un intervento chirurgico.

L’intervento, urgente ma non d’emergenza, viene programmato per la settimana successiva e quindi, per non allungare troppo la degenza, nonostante la richiesta di rimanere fino al trasferimento diretto, Mario viene dimesso per rientrare in Chirurgia il giorno prima dell’intervento.

Per arrivare alla conclusione del suo iter sanitario, Mario è quindi passato per tre ricoveri e una visita ambulatoriale.

La mia esperienza mi consente di pensare che alcuni anni fa la stessa vicenda si sarebbe probabilmente conclusa con un’unica cartella clinica aperta in Medicina e chiusa in Chirurgia, con qualche risparmio di tempo e di disagio per il paziente.

Se però la leggo da un altro punto di vista, che oggi è tenuto in gran conto, posso invece concludere, con più soddisfazione, che la vicenda di Mario ha consentito a tre reparti di chiudere una degenza, "fatturando" quindi ciascuno una prestazione, mantenendo sicuramente bassa la rispettiva durata media della degenza e portando all’attivo anche una visita privata, naturalmente eseguita in libera professione intramoenia, con un apporto quindi gradito di liquidità all’azienda. Cos’è accaduto ?

Una decina di anni fa, nell’ambito del difficile processo riformatore dell’organizzazione dei servizi sanitari, nel giusto tentativo di aumentare l’efficienza, ridurre gli sprechi e contenere la spesa, si è scelto di trasformare in azienda le unità sanitarie locali, introducendo, tra l’altro, elementi di managerialità, di competitività e, in particolare, avviando una modificazione del sistema di finanziamento col passaggio dal pagamento dei fattori produttivi al pagamento delle prestazioni, dalla copertura cioè dei costi del servizio alla remunerazione secondo tariffe che trasformano perfino le diagnosi di dimissione in un equivalente in denaro.

Queste scelte hanno costretto tutti gli operatori del settore a tenere in maggior conto le compatibilità economiche, a verificare in modo più stringente il modo di lavorare valutando più completamente le conseguenze non solo professionali delle proprie azioni; ma non erano, sul piano generale, scelte prive di limiti e rischi ed hanno predisposto a cambi di mentalità non sempre e non solo positivi.

Già nel ’97 una rivista specializzata, Prospettive sociali e sanitarie, analizzando i sistemi sanitari dei paesi OCSE e in particolare quelli di USA e Portogallo che da più anni avevano introdotto il pagamento a prestazione (i famosi DRG), osservava che in questi due paesi "la spesa sanitaria è aumentata in misura maggiore della media e la mortalità evitabile vi si è ridotta in misura assai minore della media degli altri paesi".

"Il pagamento a prestazione - si diceva ancora - sembra correlato con una minore efficacia complessiva dei sistemi che lo adottano e con una notevole espansione dei costi. Ciò accade per l’aumento dei costi amministrativi di imputazione delle tariffe e di controllo (negli USA la spesa amministrativa e di controllo ammonta secondo alcune stime al 30% della spesa sanitaria che è già la più alta del mondo) e per l’aumento dei comportamenti opportunistici degli erogatori, sia sul versante della fatturazione che dell’erogazione di prestazioni convenienti".

Come ulteriore conseguenza, "il medico è spinto a trasformarsi da agente in nome del malato in agente per conto degli interessi dell’Azienda da cui egli dipende e da cui dipendono i suoi interessi".

Come reagirà il cittadino sapendo che quello che gli viene erogato, e il come, potrebbe essere non soltanto o non in primo luogo quello che si ritiene meglio per lui ma che sempre più spesso potrà essere condizionato da ciò che all’ospedale conviene maggiormente fare, perché è in quella direzione che spinge il nuovo sistema organizzativo?

E quale serenità e autostima potranno conservare gli operatori sanitari nel capire sempre di più che ciò che ritengono in scienza e coscienza come il meglio per accrescere il capitale di salute del cittadino e della comunità potrà spesso andare in conflitto con gli interessi e gli obiettivi della propria azienda ?

Il quadro si complica se teniamo conto da un lato che quello della Sanità è un "mercato imperfetto" che crea facilmente spinte e produce bisogni non sempre razionali e difficili da governare, e dall’altro che la tutela della salute esige una forte integrazione tra sanitario e sociale, mentre la logica dell’aziendalizzazione spinge tendenzialmente nella direzione della separazione delle competenze e degli oneri.

Le risposte che pure si tenta di dare a queste difficoltà tra cui l’impostazione della politica dei budget e dei tetti di spesa, anziché armonizzare e regolare il flusso delle risorse e dell’erogazione dei servizi, sembrano piuttosto aumentare le tensioni e le conflittualità sia all’interno delle singole strutture, tra le diverse unità operative quando non tra singoli operatori, che nei rapporti con le strutture private.

Ne consegue una spinta a dirottare, anche nel settore pubblico, spazi ed energie su attività private, o a parziale carico del Servizio Sanitario Nazionale, cominciando di fatto a creare una sanità a diverse velocità che viaggia su binari separati. Con il pericolo di erodere progressivamente la centralità del Servizio Sanitario Nazionale, modificandone il senso e rischiando di avviare una deriva irreversibile in direzione neoliberista, tale da travolgere la stessa tutela della salute, come costituzionalmente garantita, a cominciare dalla condizione delle fasce più deboli e povere della popolazione.

E mi chiedo se non era possibile, se non è ancora possibile (salvando l’introduzione dei vari indici che abbiamo imparato ad utilizzare per l’analisi della realtà, per individuare le inefficienze e gli sprechi, per premiare i comportamenti virtuosi) recuperare sopra a tutto la logica del servizio e il primato di un orizzonte egualitario, riprendere e consolidare la "fraternità" di un legame comunitario di cittadinanza, che considera la salute un diritto da salvaguardare e promuovere tutti assieme e non (come vorrebbe, per esempio, la sciagurata logica dei "bonus") esclusivamente un bene individuale da acquistare presso il migliore offerente.