Sanità: quello che conta è risparmiare
Pazienti insoddisfatti e lavoratori sempre più divisi.
Aumenta il disagio fra i lavoratori della sanità trentina. Non sono stati sufficienti i consistenti miglioramenti economici e normativi del precedente contratto portati alla categoria degli infermieri o ai medici, non sono sufficienti le ulteriori fasce distribuite ad oltre mille dipendenti a diluire il malessere. La confusione e lo scontento non fanno che aumentare.
Non è solo la gestione delle "pagelline" di valutazione che alimenta la tensione, sono soprattutto i carichi di lavoro che si abbattono sui dipendenti, le carenze di personale ormai croniche degli infermieri, dei tecnici di radiologia, del personale della riabilitazione o degli amministrativi, che vanno ad incentivare disaffezione e rassegnazione.
La Dirigenza dell’Azienda insiste nei suoi percorsi: il personale va diviso, si deve costruire ovunque individualismo e conflittualità fra i dipendenti ed anche nel mondo dei dirigenti, e si incentiva il corporativismo alimentato da alcune forze sindacali a scapito dell’azione di ricucitura tentata dai confederali CGIL e CISL e sempre umiliata.
Una incandescente miccia sull’argomento è rappresentata dalla gestione dei fondi di retribuzione di risultato delle varie articolazioni aziendali e dei Dipartimenti.
Sono obiettivi ben strani per un’Azienda sanitaria: rispondono a logiche puramente economiche e dimenticano che l’oggetto dell’intervento sanitario è la persona, per di più generalmente in situazione di sofferenza grave.
Cosa significa per l’Azienda Sanitaria lavorare bene, ottenere risultati positivi? Risparmiare, ridurre all’osso i tempi di ricovero, anche post-operatorio, addirittura evitare i ricoveri fino all’impossibile.
Ovviamente questi obiettivi non sono scritti in modo così esplicito. Ci si accorge però che i pazienti ancora malati e bisognosi di assistenza continua vengono rispediti a casa, la responsabilità della cura di anziani viene gettata sulle famiglie in attesa dei lunghissimi tempi di intervento dei servizi territoriali, comunque inadeguati a sostenere questi carichi di lavoro sia nella distribuzione degli orari di intervento che nella quantità di servizio offerto.
Una struttura si comporta diversamente e risponde alle vere esigenze dei pazienti? Al personale viene tagliato lo stipendio, vengono cioè drasticamente ridotte le retribuzioni di risultato. Eclatante quanto accaduto a Rovereto, dove i medici sono stati penalizzati per avere curato più pazienti del previsto.
Al di là dei percorsi della gestione di questi fondi previsti nelle norme contrattuali, corretti e chiari, anche le decisioni che riguardano la distribuzione dei fondi di risultato e le effettive competenze che spettano ai lavoratori vengono decise in modo autoritario da troppi dirigenti (non tutti per la verità). Laddove questo si verifica, dipartimenti o unità operative che siano, si assiste alla divisione dei lavoratori, all’alimento di rancori, al nascere di gelosie. In questi casi i progetti vengono imposti in assenza di condivisione, di controllo del percorso, e il dirigente viene costretto ad adeguarsi per timore di pesanti ripercussioni negative.
Quando si porta questa situazione in Azienda si riceve una risposta di questo genere: "Su oltre ottocento dirigenti abbiamo avuto solo due-tre non risposte; ciò significa che il meccanismo funziona".
Sarebbe sufficiente un modesto giretto in tanti reparti dell’Ospedale Santa Chiara, o nei distretti, o presso gli operatori amministrativi, per rendersi conto di quanto forte sia il disagio vissuto dai dipendenti e della impossibilità di svolgere nella struttura e con i collaboratori una benché minima azione critica anche tesa al miglioramento del servizio.
E’ sufficiente dire ad un giornalista che i lavoratori della riabilitazione vengono costretti a lavorare senza la minima attrezzatura (biciclette, pesi o spazi), che si tolgono mansioni importanti come i massaggiatori, che alcuni logopedisti non hanno nemmeno gli spazi vitali per svolgere il lavoro, che si viene pesantemente richiamati e minacciati. Proviamo ad immaginarci quando ci si permette di criticare un servizio nelle vesti di dirigente. Lavorare diventa impossibile.
Se poi si denuncia l’inutilità o la forzatura dell’inserimento della neurochirurgia (già presente a Bolzano: perché non istituire una sinergia operativa con l’Ospedale dell’altra provincia?), quando si mettono in luce le ipocrisie di troppe inaugurazioni di servizi sul territorio (poi sguarniti di lavoratori, o aperti due-quattro ore la settimana), immaginiamoci cosa può ricadere sul dipendente.
Nell’Azienda Sanitaria trentina si vive ormai in questo clima: categorie professionali che tentano di imporsi sui colleghi, gli infermieri contro i tecnici sanitari, questi contro gli ausiliari, gli operatori tecnici contro gli amministrativi, i medici contro altri colleghi. Si alimenta lo spirito corporativo, si incentiva l’incapacità alla collaborazione e alla costruzione di sinergie, si appoggiano e sostengono le iniziative furbesche legate ad una gestione ormai disinvolta e preoccupante della libera professione, gestita come un accumulo di lavoro straordinario eccezionalmente pagato, senza alcun controllo sulla qualità del servizio realmente svolto da questi lavoratori. Tutto ciò avviene nella più totale latitanza ed indifferenza dell’assessore Mario Magnani, sempre pronto in modo clientelare a raccogliere il lamento di specifici settori di sanitari, ma assente e introvabile nelle risposte, anche scritte, alle organizzazioni sindacali.
Ci stiamo avviando al rinnovo di una nuova piattaforma sindacale (con i tempi scaduti ormai da 21 mesi): questo percorso contrattuale può fornire risposte a questa situazione che sta divenendo ingovernabile. Si dovrebbe ritornare a portare nella sanità uno spirito diverso, facendo comprendere a tutte le categorie l’importanza della collaborazione, del rafforzamento delle sinergie, di una lotta tesa al recupero pieno degli organici e di tutte le figure professionali previste.
Se questo disegno fallisce, in tempi ormai brevi ci troveremo ad aver foraggiato consapevolmente il mercato della sanità privata o della migrazione dei pazienti nelle province vicine.
E se proprio questo fosse l’obiettivo perseguito dall’Azienda Sanitaria?