“Tommy”: si può dare di più
Abilità e senso scenico nello spettacolo messo in piedi dai giovani trentini. Ottimo per dei dilettanti. Troppo timido invece per dei professionisti.
I quotidiani locali hanno fatto gara a chi sparava più alto: "Trionfo", "Miracolo"… Un titolo diceva addirittura: "Sfatiamo l’idea che chi viene da fuori sia migliore". Ma che è sta roba, all’Adige sono diventati leghisti? Oggetto delle iperboliche recensioni è il musical Tommy, che per tre serate ha fatto il pieno all’Auditorium di Trento. Pittoreschi eccessi di campanile a parte, uno spettacolo che consegue risultati così sostanziosi merita attenzione. Parliamone.
Tommy è un’opera rock, fine anni ’60, scritta dal chitarrista degli Who. La storia è strampalata: c’è un aviatore inglese tanto sfigato che nel ’45, proprio nel giorno della vittoria, viene abbattuto. Dato per morto, è in realtà caduto prigioniero (prigioniero di chi, se la Germania è occupata dagli alleati?). Comunque lui se ne torna a casa dopo sei anni di inspiegabile soggiorno coatto e ritrova la moglie con un altro. Forse si era illuso di aver sposato Penelope perché la sua reazione non è conforme al fair-play anglosassone: tira fuori la pistola per fare una strage. Per fortuna, come negli sceneggiati del tenente Sheridan, nella colluttazione gli parte un colpo e si ammazza da solo. Il figlio, Tommy, assiste alla scena e per lo shock si chiude in un autismo inespugnabile. Poi, chissà come, Tommy diventa campione mondiale di flipper. E’ ricco e famoso ma continua a non comunicare, finché la madre non ne può più e lo scaraventa contro lo specchio in cui lui ama guardarsi. Invece di finire in ospedale, il figlio trae giovamento dalla mossa di sumo della mamma: con lo specchio si frantuma anche il guscio della sua solitudine.
Tommy guarito realizza che standosene sempre zitto non ha mai rotto le palle a nessuno. Così decide di recuperare: si mette a fare il predicatore e fonda una setta. La setta cade in mano a speculatori senza scrupoli e gli adepti turlupinati si ribellano fino al tragico epilogo: una pistolettata ammazza la mamma di Tommy.
Mi sono soffermato sulla trama (trama?) perché la trovo spassosa. Ma i suoi contorcimenti logici non appartengono alla musica: rock allo stato nascente, vitale, forse scontato e prevedibile, ma pieno di energia. Se il testo si configura in un pastone stucchevole di allegorie in stile medievale, macerie simbolistiche e fregnacce new age ante litteram il suono invece è roba genuina. Appartiene all’epoca in cui si esplorava la carica prodotta dall’accordo in sincope di una chitarra distorta, sincronizzato al colpo di cassa e a un pataccone del basso, col rullante sempre sul pari, e i volumi avvolgenti e fragorosi, e l’improvvisazione lasciandosi andare, col feeling, col tiro… Prendeva forma una nuova musica che non avrebbe conosciuto frontiere.
Sono passati più di trent’anni ed eccoci al Tommy tridentino. Abbiamo assistito ad uno spettacolo ben strutturato e curato. Il regista Laino ha integrato in modo efficace teatro e video (diffondendo su un maxischermo spezzoni del film del ’75 e contributi, a volte suggestivi, realizzati ad hoc). Le coreografie erano pulite e festose, ma poco sensuali (non è per fare il porcellino ma se si ambienta un balletto in un bordello, diamine, almeno veder volteggiare qualche giarrettiera…).
I cantanti erano bravi e disinvolti. Notevoli il giovane Lorenzo Desantis nell’interpretazione del cugino sadico (intonatissimo, bella voce, energia da vendere, bestia da palcoscenico) e Dennis Cappelletti nella parte dello zio sbronzo (altra bestia da palcoscenico). Affiatato il gruppo rock, col trio di chitarra basso e batteria che macinava il terreno come una squadra di panzer… Però.
Però, se dei giovani e giovanissimi mettono in piedi uno spettacolo di successo con abilità e senso scenico non possono venire trattati con la benevolenza riservata ai dilettanti, ma si meritano una critica a tutto campo, puntuale e rigorosa, con rischi annessi. E allora andiamo a vedere se c’era qualcosa che non funzionava.
Esistono due strade per rifare un’opera. Ci si può attenere strettamente al modello oppure la si filtra attraverso la propria personalità, elaborandola, cambiandola magari fino al punto da stravolgerla: questa è la strada che porta al prodotto artistico. L’arte è coraggio, inventiva, valore aggiunto. Un buon pianista che suona Mozart non si accontenta di riprodurre le note, ma ci mette del suo, lo interpreta. Un buon musicista che suona brani di jazz o rock, cioè linguaggi in gran parte basati sull’estro e la creatività estemporanea, li rigenera in situazioni musicali con nuovi colori, arrangiamenti, improvvisazioni… Ecco, nel Tommy nostrano si avverte la timidezza nell’inventare qualcosa che attualizzi l’opera, che la personalizzi, che le dia una nuova vita. Non si tentano guizzi creativi, improvvisazioni, rimaneggiamenti di strutture. Ci si attiene pressoché alla lettera, con pedissequo impegno, a ciò che gli Who facevano tanti anni fa.
Qui sta il limite dell’operazione, un limite che impedisce al nostro Tommy di qualificarsi come qualcosa di più di un ben riuscito spettacolo locale.